CONFESSION
Today, I’m tired of ex/changing identities in the net.
In the past eight hours,
I’ve been a man, a woman and a s/he.
I’ve been Black, Asian*, Mixteco, German,
and a multi-hybrid replicant.
I’ve been ten years old, twenty, forty-two, sixty-five.
I’ve visited twenty-two meaningless chat rooms
(I’ve spoken in tongues)
As you can see, I need a break real bad;
I just want to be myself for a few minutes.
El Webback
A proposito di identità.
(pubblicata in: Guillermo Gòmez-Pena, Ethno-Techno, Writings on performance, activism, and pedagogy; Routledge, 2005)
*il grassetto è una mia licenza
Fotografare e farsi fotografare, lo si era già detto qui e qui ha a che fare con l’attività psichica. Dicevo che stavo cercando una immagine “istituzionale” di me. Era il 2004 quando mi è stata fatta lo foto che segue. Non ho scelto questa perchè sono più giovane, ma perchè io non mi ci riconosco, ma forse gli altri possono riconoscermi. L’immagine pubblica di sé non è mai propria.
Io secondo Nabil Boutros ad una mostra milanese organizzata da Afritudine (2004)
La fotografia ha uno e più poteri: viene in soccorso per portarci “ricordi” che non abbiamo. Oppure ci aiuta a ricordare situazioni luoghi che potremmo “perdere” dentro la nostra memoria.
Esiste un piacere nel guardare le foto che consiste nello scoprire, nelle fotografie, relazioni e significato segreti. Questo secondo Tisseron (“rubo” dal saggio di Maurizio Giuffredi, Preliminari a una psicologia dell’autoritratto fotografico; in Autoritratto psicologia e dintorni, Clueb 2004) si ricollega con il desiderio del bambino di vedere la scena originaria… L”‘è stato ” di cui ogni fotografia testimonia, avrebbe così il potere di portarci molto lontano e al di là di ogni contenuto aneddotico, nel cuore del problema, del cosidetto spettacolo delle origini.
Non è comunque sempre semplice “riconoscere” una immagine di sè come propria. Specie per me. Io possiedo di me poche immagini che ritengo possano rappresentarmi. Ho sempre avuto un’idea precisa di cosa dovrebbe essere il ritratto fotografico al di là di ogni cosa: uno scatto unico che deve riassumere l’evento in un colpo solo, one shot.
Questa foto me l’ha scattata un fotografo Egiziano, Nabil Boutros, ad una mostra milanese organizzata dall’associazione culturale Afritudine.
Questa foto ha una sua particolarità: rido, cosa che non faccio mai nelle foto. Me lo ha imposto lui. il fotografo che mi ha messo davanti ad un fondale lucido nero e mi ha detto in francese di ridere. E io l’ho fatto.
Anche io amo moltissimo le foto, per tutte le sensazioni che hai raccontato tu.
Ma le foto sono anche una delle cose che sanno fare più male, quando guardandole non ti riconosci più, quando pensi che appartengono ad un’altra vita che non è più e ti chiedi se davvero c’eri, se quelle cose le hai vissute o sono solo un sogno su carta (o in bit, di questi tempi). Oppure se la vera vita la si vive soltanto in foto (la gente scatta foto di sé dei momenti felici, nessuno vuole ricordare periodi tristi) e tutto il resto dei giorni, i giorni senza foto, sono destinati a scomparire, sono solo un’illusione.
E sono finita off topic…
@Monica, tu sapessi quanti tipi di collezioni possiedo: libri, arte, pupazzi anime, fumetti, foto di montagna d’inizio secolo 900, modelli “corpi umani”, piante grasse, piante esotiche, musica ecc… la mia casa è come il “gabinetto delle curiosità” dei secoli scorsi, ma foto di me no. Ne ho meno di 10 di me. Sono foto che non ricordano un evento ma uno stato d’animo. Esempio una foto sotto al Cervino: avevo 10 anni ma in quella foto vedo quello che sono adesso. La stessa curiosità. Ho sempre evitato di cercare di “fissare il tempo”… poi quando ci ripassi fa sempre un po’ di male. Ma iltempo si fissa sempre da sé, non ha bisogno di una foto: sul nostro corpo ad esempio, nello spazio in cui viviamo, all’angolo della strada dove “quell’immagine” la ripassi quotidianamente. Sulle scatole di fotografia ne parlerò. Ne ho tante ma ce n’e una che non apro mai (almeno ci provo). La scatola-cassetto a casa dei miei genitori.
Un amico che era in Bosnia nel 1992, dirante la guerra, mi ha racontato che la gente in fuga, quelli che avevano avuto solo pochi munuti per scappare dalle loro case, portavano quello che poteva stare in una sacca, robe raccolte al volo con poche differenze: chi ci metteva un giaccone in più, chi una coperta, chi un pezzo di pane. Ma tutti avevano gli album delle fotografie.