25 aprile 2021.

La foto della liberazione.
Maria Rabbi al centro, zia Maria, David Santrella

Quale luogo più sensibile di quello della memoria, della madre e della sua memoria scritta.

(da: AAVV. “La guerra nei miei occhi, 1945-1995 percorsi della memoria femminile”, edizioni del girasole, Vergato (Bo), 1995)

LA BATTAGLIA DI STANCO

Era l’inizio dell’estate e, come sempre, avevo seguito i miei amichetti sul monte di Stanco. Sul versante Nord si notavano delle buche con rialzi di terreno che imparammo chiamarsi trincee; non vi badammo: era molto più piacevole giocare nel versante sud. Quel giorno sentimmo il rombo di una formazione aerea ma non ci facemmo caso se non per contare quanti aerei fossero. Tutti impegnati nella nostra operazione li osservammo abbassarsi e per la prima volta vedemmo le bombe che scendevano e che provocavano grosse esplosioni: fummo testimoni del primo attacco aereo alle stazioni di Vergato e di Grizzana.

Probabilmente, i piloti avvertirono il nostro movimento tra gli alberi così ci presero di mira con le loro mitragliatrice. Fuggimmo a precipizio, con le pallottole che ci fischiavano vicino agli orecchi; fortunatamente nessuno di noi venne colpito dai proiettili. Quando al crepuscolo i genitori di Nino – un bimbetto di soli tre anni – tornarono dal lavoro dei campi, chiesero dove fosse il loro bambino; solo allora ci accorgemmo di averlo “perso” nella fuga. Lui, più giudizioso di noi, si era nascosto nel cavo di un vecchio albero. Lo ritrovammo così, piangente e sporco: dallo spavento si era fatto la pipì e la popò addosso ma, cosa più importante, era salvo.

La sera ci furono i vari racconti ed io imparai tra le altre cose che per poco non avevo perso la zia Maria. In quello stesso giorno decise di farsi la permanente e quindi si recò a Vergato dal parrucchiere. Lungo il viaggio del ritorno, una granata esplose vicino al gruppo di persone assieme al quale viaggiava: una scheggia di granata colpì un uomo che, facendole inconsapevolmente da scudo, la salvò, andandole a cadere addosso.  Mentre lo raccontava si guardava nello specchio dicendo: “Però, come è la vita. Lui è morto ed io sono viva, sana e bella.”

La guerra cominciava veramente a farsi sentire. Il cannone tuonava da lontano e la Minghina, una cara e ruspante vecchietta, diceva che erano gli alleati che “rompevano la frutta” (e voleva dire che “irrompevano attraverso la Futa”). In quei giorni venne piazzata la contraerea. La prima volta che sparò fu quando assieme alle mie cugine andammo a prendere l’acqua alla fontana della Doccia. Alle prime esplosioni udimmo la voce della zia Lina che urlava a squarciagola: “Bambine, bambine, fermatevi! Riparatevi che arrivo!” L’aspettammo sotto un albero e dopo alcuni minuti la vedemmo arrivare con un cesto in testa ed altri in mano che ci fece “indossare” a mo’ di elmetto. Sosteneva che ci avrebbero “salvate” dalle schegge. Ricordo che a me spettò il cestino del pane, il quale, un’ora dopo, tornò a fare il suo naturale uso senza nessun intervento igienico.

Di giorno in giorno le fortezze volanti passavano sempre più frequentemente. Il paese era costantemente tenuto sotto il tiro dei cannoni. Poiché il rifugio antiaereo non era stato ancora terminato, io, la mia nonna e le zie andammo a dormire nella stalla della Minghina. Pareva un posto molto sicuro per via dei muri spessi dell’edificio. Quella notte però una granata centrò in pieno il muro dove poggiavamo i pagliericci. Mi svegliai con il corpo esanime della Minghina, riverso su di me, che stringeva tra le braccia il corpicino senza vita del nipotino di un anno. Se voglio ricordare l’immagine del dolore, penso al viso della mamma del piccolino, teso, ma senza una lacrima e senza un lamento. 

Il lavoro per il rifugio continuava. Il tempo stringeva e il progetto iniziale di scavo a ferro di cavallo sotto la montagna venne abbandonato. I volontari non si davano tregua lavorando alacremente per costruire le strutture di sostegno in legno. A dirigere i lavori erano un poco tutti (“praticoni” abituati ai lavori manuali). Particolare merito va ad un biondino, del quale non ricordo il nome, che disegnò, ispirandosi alle inquadrature di un film visto al cinematografo, immagini di gallerie di miniere.  Questi schizzi servirono da suggerimento nei casi di incertezza. Sulle prime tutti erano recalcitranti ad entrare nel rifugio ma poi i continui cannoneggiamenti e le frequenti rappresaglie dei tedeschi fecero decidere anche i più incerti ad occupare il loro posto dicendo: “Tanto sarà una questione di pochi giorni; gli inglesi sono già qui dietro”.

I “pochi giorni” furono trentotto e sfido la più fervida fantasia ad immaginare quale fosse il tipo di vita di quel periodo.  Fortunatamente molti del paese sfollarono non so dove, nella speranza di trovare un poco di pace e tranquillità, altrimenti i due tronconi di rifugio non sarebbero stati sufficienti ad ospitare tutti. Tragicomico fu il saluto di una coppia di ragazzi poco più che quindicenni, lui costretto a lasciare il paese con i genitori, lei invece a rimanere. Prima si abbracciarono promettendosi fedeltà, poi si insultarono dicendo: “Se mi amassi veramente non mi lasceresti” e cose varie che dicono gli innamorati arrabbiati. Infine si riabbracciarono ed a quel punto il padre del ragazzo, un omone grande e grosso, sollevò di peso il figlio e lo issò sul carretto commentando: “Io non ho mai detto a sua madre che le voglio bene ed ho cinque figli. Figuriamoci un poco questi come promettono.” I primi giorni in rifugio non furono disastrosi. Nei momenti di tregua del cannoneggiamento si poteva uscire a respirare aria pulita, gli uomini salivano alle case e raccoglievano tutto ciò che poteva servire alla sussistenza, compresi gli indumenti puliti. Poi dal momento in cui i tedeschi si impadronirono del paese praticando i più disgustosi vandalismi su cose ed animali, i volontari cessarono le escursioni.

Col trascorrere dei giorni la situazione si appesantiva. Dopo una quindicina di giorni fummo costretti a restare chiusi e stipati (eravamo sessanta o forse settanta persone) nel rifugio. Si sopravviveva solo per la oculatezza e la previdenza di alcuni che si erano portati dietro più cibo possibile e per il coraggio di altri che, di notte, andavano di soppiatto alla ricerca di qualcosa di commestibile. Quante cose capitarono in quei giorni! I ricordi sono confusi ma non posso dimenticare come ci si lavava. Un piccolo catino passava da persona a persona e non vi dico il caos nell’essere così ammassati.

A volte veniva usata la scorta di acqua potabile per bagnare cenci che venivano fatti passare fino alle ultime persone in fondo al tunnel, le quali, alla meno peggio, si pulivano mani, occhi ed, a volte, anche altre parti del corpo, specie dopo il soddisfacimento di bisogni naturali. Uno dei più previdenti aveva pensato di portare anche due vasi da notte, che risultarono poi gli oggetti più utili: venivano fatti passare di mano in mano fino a chi ne aveva bisogno, e non vi dico cosa succedeva quando essi dovevano fare la strada a ritroso, colmi all’orlo, mossi da quelle mani tremolanti. Il più delle volte c’era la discussione per poter usare il “vasetto” prima di un altro a causa dell’urgenza del bisogno o per evitare di rovesciarsi addosso il prodotto altrui. Tra gli altri problemi vi fu anche una epidemia di dissenteria che durò tre giorni almeno. 

L’odore non era di lavanda, ma in compenso copriva l’acre odore stantio di sudore. Il più fortunato degli occupanti a mio parere era Aldino, un ragazzo sfollato da Bologna che, versando in malattia, aveva acquisito il diritto di disporre di una parte di posto destinato agli altri e di starsene sdraiato a letto. Chissà se anche lui condivideva il mio punto di vista sulla sua fortuna!La cosa che mancava maggiormente era il movimento: non era possibile fare altro che alzarsi in piedi per stiracchiarsi. Per quanto possa parere strano (pur se non abbondava), il cibo non mancò mai: quando la disperazione cresceva, come per incanto comparivano un formaggio e una pagnotta con almeno un mese di stagionatura dove era impossibile affondare i denti. Beati noi bambini che i denti li avevamo ed anche sani! Le poche mucche risparmiate dai tedeschi continua vano a dare latte. Venivano munte grazie al rischio dei più ardimentosi che assicurarono così il latte per i neonati e per i vecchi. Un giorno si sentì odore di salame: era un pezzo piccolo uscito chissà da dove. Non tutti riuscirono ad assaggiarlo ma solo l’averlo annusato diede a tutti un poco di allegria e fece sperare in tempi migliori.

Dopo una decina di giorni che non si usciva, cominciammo a notare che tutti o quasi avevano un gesto usuale e ripetitivo: grattarsi sotto le ascelle. Nessuno, a starlo a sentire, aveva i pidocchi ma era evidente che questi parassiti avevano trovato il loro agio su tutti noi. L’osservazione di noi stessi come se si fosse allo zoo era uno degli involontari passatempi. Ma solo dopo qualche anno sono riuscita a capire il pianto sommesso accompagnato da una ostinata solitudine di una ragazzina, forse tredicenne, accovacciata nell’angolo più buio del rifugio. Un ricordo chiaro me lo ha lasciato la Gina carbonaia sfollata da Bologna (ex infermiera): sfidando i colpi dei cecchini e le cannonate si recava a curare un ragazzo tedesco ferito che teneva nascosto dai partigiani dicendo: “Lui non ne ha colpa se ha dovuto obbedire ad un pazzo.” Propose anche di accoglierlo nel rifugio ‘tanto lì non lo avrebbero trovato’, ma i più si opposero. Poi il poveretto morì ed i suoi stivali furono utili ad un signore che, fuggendo sotto le granate per raggiungere il rifugio, aveva perso una scarpa.A noi si erano aggiunti alcuni scampati dall’eccidio di Marzabotto che ci raccontarono tutte le atrocità in aggiunta a quelle che già arrivavano da altre fonti. La nostra pena si indirizzava anche a quelli che preferirono l’esodo al rifugio, poiché per un raggio di diversi chilometri succedevano solo tragedie.

Da trentasei giorni eravamo chiusi nel rifugio. Quella notte sentimmo ripetutamente i colpi di cannone, accompagnati dalle raffiche delle mitragliatrice, durare fino all’alba quando, come per magia, finirono all’improvviso e tutto fu silenzio. Un uomo giunto nel rifugio da pochi giorni, quale unico superstite di una famiglia di Pioppe di Salvaro, si offrì di andare in avanscoperta per carpire informazioni, “tanto non ho più nulla da perdere”, disse. Dopo poco più di una ora rientrò inorridito raccontando che ovunque erano cadaveri accatastati di uomini di colore. “Sono tanti”; queste le sue uniche parole, poi rimase ammutolito. La giornata passò senza che si avvertisse nulla di nuovo. Dopo il crepuscolo, riecco tuonare la battaglia. Ancora più violenta della notte precedente: i colpi si sovrapponevano ai colpi, i bagliori dei fuochi illuminavano a giorno gli ingressi. Le esplosioni facevano vibrare il rifugio con la potenza di un terremoto. Pareva il finimondo. Dopo dodici ore circa, all’improvviso, la battaglia cessò; regnava ora una calma impressionante. Questa volta nessuno si offrì di andare a vedere cosa fosse successo. Tutti se ne stavano ammutoliti aspettando chissà quali nuovi eventi.

Dopo un certo tempo la nostra attenzione venne attirata da voci di uomini che parlavano una lingua a noi sconosciuta: era una pattuglia alleata che cercava i superstiti. Palese fu la loro meraviglia nel trovarci vivi. Uscimmo il più in fretta possibile dal rifugio e, giunti in paese, ci si parò davanti agli occhi uno “spettacolo” che, il suo solo ricordo, mi lascia scossa: camion carichi di cadaveri andavano a scaricare il loro peso a circa tre chilometri in uno spiazzo chiamato “gli ospedali”. Non so, ancora oggi, quanti siano stati i morti ma una stima di allora parlava di duemila durante la prima battaglia e una cifra di poco inferiore nella battaglia finale. Notevole impressione ci fece la vista del monte. Prima di andare a rintanarci nel rifugio lo vedevamo folto di alberi secolari; ora si presentava calvo come un testa rasata. Ricordo che molti uomini di colore erano seduti ai margini della strada, feriti. Chi aveva bendata la testa, chi un braccio, chi il torace e chi altro. Tutti avevano l’aria stanca ma stranamente serena, o rassegnata. Non so dove le avesse trovate, perché i tedeschi avevano fatto razzia di tutto, ma la nonna si presentò con un cesto di pere. Mentre le reggeva, mi incitava a donarle ai feriti. Mi sento ancora in colpa perché, mentre loro allungavano la mano e sorridevano, io ritraevo la mia per la paura del contatto. Posso assicurare che quella fu una esperienza veramente importante per me e, se pure sofferta, sarò sempre riconoscente alla nonna di avermela imposta. Senza dubbio mi è servita per maturare.

Nel giro di poche ore vedemmo arrivare militari di razze di diverse. I più affascinanti, almeno ai miei occhi di bimba, erano i Rhodesiani: bei fisici, alti, ma la cosa che mi colpiva di più erano i loro cappelloni a larga tesa e lo spirito allegro e cameratesco. Questi simpaticoni, alternandosi ad altri, rimasero con noi per sei mesi. Il paese venne sgomberato da cadaveri e feriti ed il comando medico si insediò nella casa della nonna ed in parte nella casa adiacente.  Una per una, le persone vennero chiamate per un controllo medico e, a seconda che avessero scabbia, pidocchi o entrambi, uscivano colorati in maniera diversa. Io uscii colorata di viola; ero tra i fortunati: avevo solo la scabbia. Feci subito amicizia con l’infermiere che mi spennellava il colore; mi offrii di insegnargli a saltare la corda e lui, di buon grado, accettò. In poco tempo fu bravissimo; forse era già capace di fare ciò che fingeva di imparare. Da quel momento il paese visse un’aria di festa. Totalmente disinfettato, vide l’installazione della luce elettrica. Si mangiava pane bianco in cassetta, formaggio tipo fontina, carne in scatola e cioccolata a volontà. Non mancarono nemmeno olio, sale, zucchero e, caffè “di levante”, come usava dire la nonna. Io ero diventata la mascotte degli alleati.  Un italoamericano di New York, David Santrella, quando poteva mi issava sulla jeep e mi accompagnava dove erano installati i mortai; qualche volta mi faceva anche tirare la funicella che fa partire il proiettile. Pure il capitano medico mi portava sempre con sé. Diceva che voleva adottarmi; un altro padre sparito con la guerra. Da allora, infatti, non ne ho saputo più nulla.

Rabbi Maria Fornasari

da: AAVV. “La guerra nei miei occhi, 1945-1995 percorsi della memoria femminile”, edizioni del girasole, Vergato (Bo), 1995

Image

Midday under the Palm VS Allestimento per Giuseppe Pellizza da Volpedo

Troppo tempo che non passo di qua. Ma è il tempo che lo faccia ponendomi una domanda: cosa lega il mezzogiorno sotto la palma di Miami con Volpedo? Risposta: la luce e il suo clima cromatico.

Ci voleva una… epifania nei giorni di Pasqua. Uno dei miei primi ricordi si associa a un paio di calzettoni che mi prese mia madre dal caratteristico colore che poi avrei chiamato “verde fastidio”. Questi calzini nella mia mente cambiavano continuamente colore.

Ero assorbito dal pensiero di quel colore che non era mai lo stesso. Ripensandoci poi, nel tempo, ho capito che una delle mie caratteristiche si lega alle acrobazie cromatiche, alla ricerca cromatica e alla costruzione di “trame cromatiche”.  I colori mi restano dentro, lasciano una impronta e continuano a lavorare anche molto dopo la visione, formano un clima cromatico che si sintetizzano in forma di emozione. Vedendo oggi la comunicazione della Maison Louis Vuitton questa impronta si è risvegliata.

Dopotutto pensiamo a colori così come vediamo mettendo in esercizio la nostra memoria e altre attitudini: ogni pensiero è un atto creativo che gioca tra memoria, esperienza e la capacità immaginativa che possiamo attivare.

Ma quale era il senso della domanda iniziale?

Questa epifania ha risvegliato l’epifania del 29 luglio di quest’anno, quando camminando per Volpedo in attesa dell’apertura del museo percorrevamo le strade di Volpedo. Immerso nella luce per la prima volta “sentivo” il dipinto come mai lo avevo sentito: una moltitudine di gente sotto il sole di una calda giornata immersa in una piazza assolata.

Image

Volpedo, 29 Luglio 2013, ore 13.10

Che il sole di mezzogiorno di una calda giornata sia quello che scalda il dipinto, ne abbiamo avuto prova camminando per le stesse strade di Volpedo.

Image

Volpedo, 29 Luglio 2013, ore 13.30

Le idee per l’allestimento dell’opera di Pellizza da Volpedo,  in occasione della mostra, erano tutte lì sotto il nostro naso. Non andavano che declinate nello spazio: lavorare con la luce e con la colorazione della sala. Il Quarto Stato il pittore lo ha visto crescere nei suoi anni di lavorazione all’interno di uno spazio alto, luminoso, con le pareti né chiare né scure. Un colore che ricorda una materia. Andava solo ripresa quella luce, quel clima. Come la soluzione di un enigma.

Image

Volpedo, 29 Luglio 2013, ore 15.00

Mostra al Museo del 900 di Milano, dal 15 novembre 2013 al 7 marzo 2014 a Cura di Aurora Scotti

Catalogo Electa

Allestimento di: Fabio Fornasari

con: Lucilla Boschi

 

25 Novenbre 2010, ore 15.30 ore 18.20

ElapsedTime: l’inarrestabile marcia del Quarto Stato verso la sua collocazione nel “Novecento”. Il viaggio finale.

In questi ultimi 10 anni, percorrendo il mio cammino lavorativo e di ricerca, ho incrociato personalmente per almeno quattro volte un’opera che definirla semplicemente un quadro è limitativo: il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Sono stati quattro incontri allo stato fisico e non semplicemente simbolico anche se con questo livello, con il simbolico, ho dovuto farne sempre conto.

Inutile nasconderlo: è una icona, forte e forse la più forte del ventesimo secolo italiano, talvolta tanto forte da limitarne la sua potenza che va oltre il fortunato dato iconografico. E’ un’opera che intenzionalmente ti avvicina, si presenta nella mente di chi la guarda come un “affresco composto da un bagaglio figurativo diffuso”. Qualcuno oltre al pittore lo capì subito. Giovanni Cena a Pellizza da Volpedo: “Ammiro. E’ una cosa che resterà e che non ha paura del tempo perché il tempo le gioverà. Ti Abbraccio con tutta l’anima”. Il passo della lettera del 1902 è stato scelto da Aurora Scotti nell’Introduzione al Volume Il quarto stato a cura di A.Scotti e ripreso nel saggio “Dentro e oltre l’immagine di un mito” di  Maria Fratelli – conservatore della GAM di Milano – in occasione di una mostra a Palazzo Reale voluta da Vittorio Sgarbi, il mio terzo incontro con l’opera.

26 Novembre 2010, ore 16.44  (foto Lonati)

La mia quarta volta con l’opera è al Museo del Novecento, un’incontro atteso da nove anni. Tempo di attesa che contiene tutti gli altri incontri. La collocazione pensata sulla carta nel 2001 in sede di concorso rispondeva ad una conoscenza dell’opera che non aveva ancora assunto la dimensione “interna”, del sentirsi “dentro l’immagine”. Al tempo era solo una icona, una immagine “virale” condivisa tra la conoscenza della storia dell’arte e la comunicazione politica, tra la visione di un originale e le infinite riletture della comunicazione politica e sindacale. L’esperienza più forte tra queste sicuramente il “Novecento” di Bernardo Bertolucci. In questi nove anni non solo sono entrato dentro ad una immagine ma ho avuto il privilegio di veder costruire intorno all’opera differenti visioni e alla fine di costruire personalmente la visione attuale che si offre al Museo del Novecento e che risente sicuramente dei precedenti incontri avuti con l’opera e con tutte le persone intorno a quest’opera. Questa è la sostanza di progettare e vedere costruire giornalmente un museo fino al trasporto e alla collocazione delle opere sulle pareti: produrre una visione fisica delle cose e verificarne l’efficacia da concetto a immagine, da cuore dell’artista a cuore del visitatore. Perché non si vede solo con la “testa”.

Le immagini delle cose nella nostra “testa” si sovrappongono e questo produce stati del pensiero, emozioni. Al termine del trasporto dell’opera di Pellizza lo sguardo  mi cade sui guanti dei trasportatori, degli operai che sanno come si sollevano opere che pesano 4 volte il peso del loro corpo. Pare che per loro le leggi della fisica non esistano da quanto sono interiorizzate in ogni loro muscolo, da come il corpo si sposta con una intelligenza fisica  nel corso della “movimentazione”.

25 Novembre 2010, ore 18.09.57

La polvere è stata oggetto di non troppi saggi. Ultimo di mia conoscenza il saggio di Elio Grazioli. Scrive a pagina 4 “Oggetto a una dimensione, il granello di polvere è il punto geometrico in natura, è il culmine nell’oggettività del suo contrario, la materia stessa. Al limite della visibilità, la polvere è l’invisibile che diventa visibile” (ndr: il grassetto è mio); “La polvere indica che c’è ancora qualcosa al di là delle possibilità della percezione, sotto la soglia delle capacità dei sensi: gli atomi appunto, e in particolare quelli degli odori, dei suoni, della luce, del tatto, “materie” invisibili che deduciamo dai loro effetti”. La polvere ci mostra quello che non vogliamo vedere, la materia della quale sono fatte le cose, non i sogni. La polvere ci parla della realtà. In quell’attimo mi sembrava che quei guanti avessero capito meglio di chiunque altro l’intenzione di Giuseppe Pellizza, l’intenzione di mostrare l’invisibile, dargli immagine oltre l’effetto di presenza. Non una semplice traccia ma un percorso da seguire.

Le tracce della polvere mi portano al primo incontro in occasione della mostra per “Il Futurismo a Milano, anticipazioni per il nuovo Museo d’arte Moderna e Contemporanea” allestita da me insieme a Italo Rota e a Emmanuele Auxilia al PAC di Milano. La visione che ci mostra nella foto Olivo Barbieri sfocata, polverosa bene interpreta la lunga marcia che dovranno compiere i protagonisti del Quarto Stato e i visitatori; marcia che trova una strada fisica che parte dal quadro messo a terra nell’installazione di Stefano Arienti per raggiungere le sale del Padiglione d’Arte Contemporanea di Ignazio Gardella. Dopotutto il movimento è l’essenza stessa dello spazio suggerito dal quadro. E questo movimento è fatto di incontri.

Marzo 2002  (Foto Olivo Barbieri)

Giugno 2007

Il terzo incontro con l’opera è, per me, con i suoi personaggi. L’occasione è la collocazione dell’opera nella Sala delle Cariatidi di Palazzo reale voluta da Vittorio Sgarbi per porre l’attenzione sul dipinto ai milanesi che non sanno di possederla e per parlare del suo futuro spostamento nella collocazione attuale. Posto in fondo alla sala, il lento cammino di avvicinamento al quadro spostava il nostro corpo e la nostra visione da una dimensione iconografica ad un corpo a corpo con i personaggi del quadro che possiedono nomi e cognomi propri, storie da raccontare. Come una carta d’identità collettiva. Questa visione rivela raddoppi dei personaggi, distoglie lo sguardo dai protagonisti per rilanciare la visione come il risultato dell’ascolto di un “suono massa”, un suono che si ricompone di piccole parti altrimenti inudibili. Questa metafora trova nel divisionismo la tecnica pittorica più precisa e perfetta.

Nel 2006 a Milano la GAM si rinnova e diventa Museo dell’Ottocento. Per tre anni con Maria Fratelli si lavora per definire una procedura sul tema dell’allestimento di un museo all’interno di una dimora storica.   All’inizio dei lavori l’intera Villa Reale è un’opera maltratta dagli usi sbagliati che negli anni si sono susseguiti ed è stata compromessa da interventi pesanti che non hanno retto la concorrenza dell’immagine storica che Pollack gli diede all’origine. La strategia  era legata alla riattivazione della potenza dell’architettura e non l’implementazione di ulteriori elementi. E’ stato un lavoro di riscoperta della dimensione narrativa dello spazio della villa. Stesso discorso per le opere. Il quarto stato era stato collocato al termine del percorso e introduceva il suo “banale” contenuto con imbarazzante semplicità per chi doveva raccontarlo. A testimoniarlo i giri di parole delle guide che per non dire cosa rappresenta realmente quel quadro arrampicavano spiegazioni improbabili. Cento e passa anni non bastano per togliere potenza a questa opera con la quale si possono fare i conti senza imbarazzi, per quello che è stato e ancora è.

25 Novembre 2010, ore 14.05.32

Il fare architettura è cosa lenta e fatta di movimento e di incontri. Fatta anche di ripensamenti. Le immagini delle cose e degli spazi si sovrappongono nel tempo depositando esperienze. L’immagine che ho ora di questo dipinto è a più dimensioni, di natura spaziale, temporale e concettuale. Lavorare con opere di questo tipo richiede tempo; la stessa visione delle opere richiede tempo.

27 Novembre 2010, ore 17.22.08

Ora il lavoro è fatto con Italo Rota e Marina Pugliese, direttore del Museo. Il Quarto Stato è visibile da Piazza Duomo. E’ raggiungibile dalla rampa che incrocia le due marce: la nostra e la loro. Una rampa che entra nella torre per procedere lungo le sale del museo. Non è rinchiuso nella torre, non è imprigionato… ha una porta attraverso la quale può sempre uscire.

Tre anni fa sono stato attirato dalla struttura fluida dello spazio digitale che è mutabile, si increspa e ti permette di scegliere qualunque posizione al suo interno. Tre sono gli anni di questo mio spazio. Dovrei dire due. Nell’ultimo anno mi sono impegnato a riempire il mio tempo altrove: nello spazio che mi circonda, lo spazio del mio lavoro. Tre anni che hanno accompagnato diversi lavori e in particolare un cantiere che ha visto la fine il 6 dicembre a Milano dove questa dimensione mutabile e fluida si trova: il Museo del Novecento, all’Arengario. Ogni lavoro è fatto di mille intenzioni, mille passaggi. Questi ultimi sono stati condivisi con Italo Rota. Molte delle cose sperimentate qui le ho passate lì dentro. Molto di quel progetto ha preso da questa dimensione. Dopotutto il digitale è una attitudine non uno stile. Generalmente le opere che compongono i nostri spazi sono costruite su un’idea determinata, su una direzione fissa… una tradizione che arriva direttamente dal rinascimento, dall’illuminismo. Troppo spesso siamo abituati a seguire “un filo del discorso” legato a uno “sviluppo della trama”. Nei miei lavori cerco sempre di introdurre un cambiamento lento slegato da una trama chiusa. Non una rappresentazione che si dichiara rigidamente ma un racconto aperto, che enuncia, dichiara richiama i personaggi che trovano un ruolo solo legandosi alle persone che vi entrano.

Voglio che i miei lavori siano spazi dove rimanere per qualche tempo, dove trasfigurare lentamente la propria percezione. E’ importante che lo spazio e il tempo si increspino come l’acqua che sfiorata ci cambia la percezione avuta fino a quel momento. Come nella Cripta dei Falconieri di Borromini a San Giovanni dei Fiorentini. Quello che cerco sono spazi che mediano tra una dimensione concettuale e una dimensione emozionale. Questa è una vera nuova opposizione per le opere contemporanee. Non esiste più un interior contrapposto ad una architettura degli esterni: lo spazio è tutto legato all’interno di una unica esperienza dilatata che si increspa continuamente al passaggio di ciascuno.

E’ il tempo del ritorno.

Ci sono persone che muovono il proprio immaginario sulla linea dell’orizzonte. Viaggiano, sognano nuove frontiere cercando di spostare “sempre più in là” la propria presenza all’interno di un pianeta che abbiamo d’un tratto scoperto finito. Muoversi lungo l’orizzonte, sulla superficie del pianeta in cerca di qualcosa di sempre più nuovo contiene una verità nascosta che in qualche modo svela molto della struttura stessa del viaggio. Per quanto ci si allontani dal punto di partenza, il nostro stesso cammino ci porta sempre più vicini all’origine della nostra partenza. Viaggiamo su una sfera dopotutto che ha una superficie esprimibile con una formula matematica e che ci dice che la sua superficie è finita ed esprimibile con un numero.
C’è chi invece muove il proprio immaginario sull’asse verticale, il proprio asse verticale: dal centro della terra verso l’infinito e oltre; sappiamo dove sta ma non sappiamo come sia fatto. Sta sopra la nostra testa. Poi ci sono persone come Jules Verne che viaggiano in tutte le direzioni, pure dentro lo spazio della terra.
Qui, ora, il punto di vista che esprimo su questo viaggio orizzontale, sulla sfera azzurra, si esprime come una peregrinazione all’interno del già noto: se anche io non conosco direttamente cosa c’è, qualcuno prima di me ha conosciuto e visto.
Il viaggio verticale è un viaggio che si muove prima di tutto su un piano del simbolico.
E’ viaggio dalla luce alle tenebre ad esempio. E’ un viaggio che agli estremi, simbolicamente ha due diverse forme di eternità opposte.
Sulla verticale viaggiano le dicotomie.
Ma è anche la prima vera conquista dell’uomo: dopo aver gattonato conquista la posizione eretta, la conquista dell’asse di stabilità di tutte le cose, l’opposizione alla forza di gravità.
E’ un percorso che mette in gioco molte certezze. Lo stesso significato di giorno e notte non hanno senso se ci si sposta sulla verticale. Il giorno ha senso solo se abitiamo in stretto contatto con il pianeta madre. Ha un senso in relazione ad una geo-grafia.
Ha invece senso il sopra in opposizione al sotto.
Le cose cadono verso il basso. Marina Cvetaeva, citata da Erri De Luca, scrive che “oltre l’ attrazione terrestre esiste l’ attrazione celeste”.

Come si torna a casa dopo un viaggio nei paesi lontani, così lungo la verticale si ritorna nella propria posizione eretta di partenza.
L’architettura ha interpretato più volte con molti modelli questa attitudine umana: l’invenzione dell’ala, la scala dello sciamano o la scalinata della ziggurat non sono che rozzi succedanei del volo. Per questo le ali e le altre architetture sono già mezzo simbolico di purificazione: permettono una elevazione.



foto Guido Massantini

Ascensione e discesa, luce e tenebre: senza citare tutto l’immaginario corrispondente di natura diurna e notturna, queste parole sia sul piano dei significati che del valore simbolico sono al centro dell’installazione appena inaugurata a Roma sabato scorso.
Il lavoro che ho preparato a latere di una ricerca in corso con un istituto del CNR, l’IRPPS, propone un lavoro sulle immagini che si fanno spazio offrendo una “discesa”, uno sprofondamento dentro di essa.
Di questo si tratta: un viaggio in discesa, verso il profondo di una immagine. E’ un calarsi in una architettura che si struttira su due opposti realizzata da Francesco Borromini, l’ultima sua fatica prima della morte tragica che si è riservato tutta per sè. La Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini custodisce un altare che nasconde sotto di sé la Cripta voluta dalla famiglia Falconieri. La dualità luce tenebre è già all’interno dell’architettura Borrominiana.
La discesa verso la cripta suggerisce una disposizione verso un qualcosa di “meno noto”; è un percorso che si fa metafora: porta sulla soglia di un mondo che non è reale bensì è virtuale in quanto è un doppio della realtà senza possederne la sostanza; suggerisce in chi guarda una disposizione verso la ricerca che si fa immagine nella fonte d’acqua dai toni della notte. Questa fonte riflette non una immagine ma un’intero luogo che suggerisce il tema della soglia tra uno spazio vertiginoso che ti porta a scendere ancora e uno spazio del ritorno.
Una soglia che ti pone il tema del “che fare?”.





Immagine dell’installazione presso San Giovanni dei Fiorentini

Location:
San Giovanni dei Fiorentini, Roma Via Acciaioli 2
dal 15 Maggio 2010 al 24 Giugno 2010
installazione di Fabio Fornasari
curata da Sveva Avveduto – CNR IRPPS
Sound design Paolo Ferrario/Ėsprit Machiniste

In viaggio per Roma. Verso un un nuovo lavoro che si inaugura questa sera.
In viaggio in treno, ora, con tutto me stesso all’interno di certe idee che mi porto dentro/dietro da tempo.
Da qualche parte devo avere scritto che i corpi sono spazi: oltre alla sua natura biologica contengono “cose” disposte secondo un ordine che non è sempre deciso da noi ma più spesso deciso dalle cose stesse.
I luoghi del corpo sono sensibili all’esterno: registrano spostamenti non solo fisici ma anche su altri diversi piani: del simbolico, del significato e di altri livelli. Ma aprono anche un dialogo costante all’interno della costruzione di doppi. Come un processo di costruzione di spazi “avatar” dentro di noi che poi sentiamo il bisogno di proiettare verso l’esterno attraverso strategie di costruzione, di significazione. Rispondere allo spazio dopo che questo è entrato in noi e ci ha posto una domanda. E’ come se gli spazi sentissero il bisogno di esser definiti da chi li attraversa.

Tempo fa inaugurai – sotto la cura di Maurizio Giuffredi – un nuovo progetto di Galleria d’arte a Bologna all’interno di un luogo particolare, un laboratorio di partecipazione che per lungo tempo e ancora oggi studia modelli di lettura e modificazione del territorio, XM24. Di loro ne parlai anche qui.
L’edificio in passato era stato usato dal Mercato Ortofrutticolo di Bologna. Quel pavimento ha registrato tutti i movimenti delle persone e delle cose che gli sono avvenuti sopra: macchie di pittura, segni, abrazioni: tutto visibile. Rinnovare la funzione di questo luogo attraverso una installazione site specific era l’unica condizione per potere procedere. L’unica possibilità per fare questo era operare con una procedura che non fosse di cancellazione della storia dello spazio ma nemmeno di conservazione. Era per me necessario sottolineare quella storia nel momento stesso in cui la si stava per perdere, attraverso il tema del doppio, di una immagine specchiata costruita fisicamente che dividesse e preparasse alla perdita, una forma di lutto.

Per questa “rielaborazione del lutto” della funzione dello spazio come luogo di lavoro ho applicato la tecnica dello strappo, aiutato da un restauratore – Davide Riggiardi. Una volta strappata la patina, è stata applicata sul muro adiacente, in verticale. Lo spazio e il suo doppio – la mia “proiezione” di quello spazio – erano in scena e la galleria fu aperta.

Stasera NON un’altra storia.

Catalogo della mostra. Le foto pubblicate nel catalogo sono di Daniele Lelli

Foto dell’allestimento




1969, Alpe di Siusi, dal cassetto di famiglia


Ricordare, riconoscere, cancellare, manipolare, smarrire, costruire e perdere ricordi e falsi ricordi sono tutte azioni psichiche che compiamo quotidianamente nelle situazioni che attraversiamo. “Carichiamo” e “scarichiamo” continuamente immagini dalla nostra mente; le mettiamo a continuo confronto, consapevole o inconsapevole, per costruire il paesaggio del nostro vissuto quotidiano.
Ci sono immagini che probabilmente ci portiamo dentro che non siamo in grado di riconoscere o di ricordare, immagini ed esperienze immemorabili, tanto lontane nella nostra memoria da non essere capaci nemmeno di pensarne l’esistenza. Sono immagini che se si ha l’occasione di rivedere non solo permettono di ricordare ma permettono anche di riannodare elementi apparentemente scollegati tra loro. Permettono di ricomporre alcuni elementi sparsi per dare un nuovo senso alle cose intorno. Hanno in sé una certa preveggenza che si manifesta nell’atto della visione, solo dopo che sono state “riviste”.

Luigi Ghirri è un fotografo che chi ha fotografato e chi “guarda” o chi lavora sullo sguardo del paesaggio non può non conoscere.
Troppe volte confuso con un meditativo e contemplativo del paesaggio, è un fotografo che ha un approccio concettuale, è un fotografo dei margini, di ciò che il tradizionale paesaggismo non si curava al tempo.
Venticinque anni fa era ripartito per un “Viaggio in Italia” che muoveva intorno alle periferie, ai luoghi lontani dalle attenzioni delle guide turistiche. Era ripartito dai dettagli del paesaggio per ricostruire una visione non solo fotografica dell’Italia; un’Italia fotografata per come si presentava realmente nel flusso della grande trasformazione epocale degli anni tra i settanta e gli ottanta.

Ghirri documenta un paesaggio che non sta sparendo ma che sta cambiando; un paesaggio sempre più frammentato. Il paesaggio, la sua idea, potrebbe essere letto con gli strumenti della psicanalisi: ai paesaggi coerenti, raccontabili attraverso la forma del panorama, succede un territorio di frammenti e di relitti, un territorio di scarti dimenticati, cancellati, rimossi.
Quei paesaggi che Gilles Clement pone all’interno del “Manifesto del terzo paesaggio”.
Quei paesaggi raccolti e reinventati dallo stesso Ghirri come nello stesso momento faranno nella Francia i lavori della Mission Fotographique de la D.A.T.A.R..
La fotografia, prima dei geografi, degli urbanisti e dei paesaggisti, svela come sta cambiando il paesaggio in Europa; non ha in mente una chiave quantitativa; pensa al nuovo modo di abitare; in altre parole, i fotografi, riconoscono e ridefiniscono l’immaginario del paesaggio.
Questo è il potere delle immagini: una immagine non è solo una realtà visiva ma soprattutto è la rappresentazione di ciò che la cultura può offrire, ricordare, nascondere ecc…




1979, Alpe di Siusi, Luigi Ghirri

berlin008_web


Stare in una terra di nessuno è una strana sensazione.
Stare nella terra di nessuno tra due città separate che dopo tanti anni si sono riunite aveva qualcosa di particolare: una desolazione piena di cose.
Le due città, in modo diverso erano cambiate. Quella terra di nessuno era rimasta ferma.
Il disegno della città e le sue cose disperse lungo questa fascia davano l’impressione della carta da parati lacera, che lascia intravedere la trama di una passata decorazione. La “carta” l’ha protetta fino al momento in cui la lacerazione non si è prodotta. Lungo tutta la fascia di protezione si scopriva la “gengiva” di un passato non troppo remoto che non era più ne l’una né l’altra città e che contemporaneamente ospitava una serie di oggetti legati al tema del controllo. Una terza Berlino, una città di nessuno popolata da oggetti dispersi – marciapiedi, tombini, pavé in pietra, aiuole, terreni – e da garitte di controllo, troppo impegnate a fare ping pong tra i due muri. Non una città in rovina piuttosto una città congelata dalla guerra fredda.
Tutta l’attenzione era per quel muro graffitato, diventato emblema della caduta; la terza Berlino piano piano è stata con il tempo cancellata.


berlin016_web


berlin010_web


berlin006_web


berlin029_web


Als das Kind Kind war, 
ging es mit hängenden Armen, 
wollte der Bach sei ein Fluß, 
der Fluß sei ein Strom, 
und diese Pfütze das Meer.
Als das Kind Kind war, 
wußte es nicht, daß es Kind war, 
alles war ihm beseelt, 
und alle Seelen waren eins” (…).
«Quando il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima,
e tutte le anime erano tutt’uno” (…).
Lied vom Kindsein, Peter Handke. Da Wings of desire, 1986. Wim Wenders
berlin015_web


Altro materiale: “Memorie delle cose”



longoni


“Ricostruisco a me stesso la mia vita artistica: i miei quadri corrispondono alle vicende della mia vita e segnano le tappe dei dolori, dei piaceri da me provati nei diversi periodi della mia vita. Questa conclusione mi si presenta un giorno, nel quale, mettendo in ordine cronologico le fotografie dei miei quadri avverto in essi una continuità di pensiero.” (Emilio Longoni dal catalogo Skira).


Un sentiero dentro la pittura.

Mercoledì 21 ottobre alle 18.30 inaugura presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano di Via Palestro la mostra curata da Giovanna Ginex “Emilio Longoni 2 collezioni”. L’occasione arriva dalla Banca di Credito Coperativo di Barlassina di celebrare i 150 anni della nascita del pittore. Per l’occasione le due importanti collezioni vengono presentate insieme in un unica mostra in forma di installazione che ho avuto la fortuna di allestire nella sala della Villa Reale.
Ci sono due pensieri che contengono questa installazione: contenere tutte le opere in una architettura che abbia una dimensione autonoma rispetto allo spazio della Villa Reale (pur costruendo momenti di dialogo) e un secondo pensiero legato ad una idea immersiva della fruizione, di appartenenza empatica, emotiva con la pittura.
L’idea non concerne il guardare opere ma entrare in un cammino seguito nell’arco della vita da Emilio Longoni, una vera passeggiata tra le persone, le cose e i paesaggi visti per noi dal pittore. Ricostruire la percezione che, come scrive lo stesso pittore, gli si ricompone davanti quando rimette in sequenza le sue opere. Un percorso che nel tempo si è sempre più staccato dalla vita sociale per approdare sui vasti paesaggi alpini. Una passeggiata di walseriana memoria: un cammino verso un’esperienza ad occhi aperti e senza pregiudizi. In sintesi, l’allestimento è un sentiero e un sentire le opere di Emilio Longoni.


Immagine 6

CARTOLINA


Cartolina del troppo lavoro


Già ho mostrato questo ambiente qualche volta su questo blog. Un punto di osservazione verso ciò che sta fuori, una “panchina obbligata “per “passeggiare da fermi” quando si tira il fiato durante un lungo lavoro. Un punto anche dove raccogliere e tenere e mettere insieme e costruire relazioni.
Come dice Georges Perec “ogni appartamento è composto da un numero variabile, ma finito di stanze; ogni stanza ha un numero funzione particolare“. Ogni stanza è definita dalle cose che ci stanno dentro: la camera ad esempio è caratterizzata dalla presenza del letto. La cucina dal forno ecc ecc. Questa è la stanza dalla quale costruire, guardare e pensare altri luoghi. Pensare mondi. Pensando a quanto appena citato da Perec aggiungerei per quanto mi riguarda che in ogni stanza (di numero finito) ci stanno e ci possono stare infiniti mondi.

Saluti da qui