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Con il prossimo arrivo della primavera quello che cambierà improvvismente sarà la nostra percezione dell’aria. L’aria che respiriamo quotidianamente è ormai il risultato di processi chimici meccanici. L’odore caratteristico dei luoghi, delle città, è più legato alla qualità delle normative ambientali e alla sue applicazioni che alle risorse naturali. La deprivazione sensoriale olfattiva legata all’abitare le città è cosa nota. Nella progettazione degli edifici, l’impianto di controllo della qualità dell’aria (climatizzazione) porta il nome di “impianti meccanici”. Questo la dice lunga.
La nostra vita quotidiana è interpretabile come un viaggio abitato. Ci spostiamo di contenitori in contenitori che producono la nostra qulità dell’aria: dai nostri mezzi di trasporto agli edifici che attraversiamo quotidianamente con le nostre attività.

La notizia del giorno che attira l’attenzione del globo sarebbe sull’aria – usando la carta della metafora – che si respirerà a Cuba dopo che Fidel Castro ha lasciato al fratello la direzione del paese; per la verità l’articolo che richiamo da La Stampa è un altra, certamente meno importante ma che comunque contiene pensieri e considerazioni non banali sull'”abuso” della “risorsa” pianeta: “Una biblioteca solo d’aria sull’ultima isola del mondo”.Sembra che il pianeta Terra ormai si stia preparando a costruire sempre più luoghi dove conservare le cose naturali della Terra stessa. Come l’Arca di Noè collezionano campioni di “mondo” che mantengono, ad esempio, il patrimonio genetico delle piante, globalmente, a rischio o più in generale informazioni utili alla “ricostruzione” di un ambiente “naturale” da parte dell’uomo. Tutti progetti che stanno per diritto sotto la categoria next-nature.
Dopo il Svaldbard Global Seed Vault, un enorme archivio sotterraneo dei semi delle speci vegetali collocato nel circolo polare artico, ecco un altro archivio dove si collezionano campioni di aria provenienti dal pianeta.
L’istituto meteorologico Australiano, il CSIRO, ha costruito in una isola della Tasmania, Cape Grim, una grande “biblioteca” dove andare a consultare, studiare e conoscere le caretteristiche dell’aria di determinate parti del pianeta. Composizione chimica, odore e tutte le altre caratteristiche fisiche sono consultabili inquesto archivio. Entrambi i luoghi, i contemporanei omologhi del monte Ararat, sono collocati in luoghi lontano dal mondo più urbanizzato.

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Svalbard, Global Seed Vault

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Cape Grim, Meteorological Center, Tasmania

Questo in Tasmania permetterà anche di dare informazioni utili per “progettare l’aria” che respireremo nei nostri prossimi “viaggi abitati”: ad esempio la qualità dell’aria che respireranno gli astronauti che partiranno verso Marte.

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A seguito del precedente post, spontaneo risultato di una reverie, sento di dover approfondire un pensiero inespresso, in quanto mette in relazione tre temi: i sensori, la geografia e le intelligenze (biologiche e artificiali).

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Le intelligenze (breve storia)
Inizialmente l’evoluzione biologica ha dotato gli organismi viventi prima di un corpo e poi di un cervello, avente funzioni di controllo centrale e dotato in certi casi di proprietà cognitive superiori, non strettamente necessarie alla regolazione del corpo. L’evoluzione dell’intelligenza artificiale (funzionalistica prima, robotica poi) ha inizialmente lavorato su una mente senza corpo, cioè un’intelligenza che aveva il compito di imitare le funzioni simboliche e astratte del cervello biologico evitando inizialmente ogni interazione con un ambiente considerato fonte di disturbo (conosciamo tutti la fatica a concentrarci in certe condizioni).Le prime intelligenze artificiali avevano il principale compito di aiutare l’uomo a sviluppare più in fretta e con il minore rischio di errore calcoli, algoritmi, operazioni ecc… Poi con la miniaturizzazione dei sistemi artificiali e l’introduzione dell’automazione nella produzione industriale e nel controllo dell’ambiente si è lavorato verso la costruzione di un corpo sempre più vicino a quello umano, per prestazioni e per aspetto.
Tra i migliori risultati commerciali oggi la Kokoro giapponese offre degli umanoidi capaci di dialogare con noi non solo con sistemi verbali ma anche con le espressioni del viso. Curiosità: molta attenzione nello sviluppo di Second Life è stata riservata proprio nella definizione delle espressioni degli avatar. Forse uno degli elementi che rende questo mondo così “desiderabile”.

I sensori (un elenco)
Questa ricerca di umanizzazione è passata anche attraverso il tentivo di dare alle macchine dei dispositivi capaci di renderli sensibili a determinate sollecitazioni: i sensori.
I principali sensori della robotica sono in grado di fare le seguenti operazioni (dai più noti ai meno noti):

temperatura: il più banale;
visione: telecamere, riconoscimento visivo ecc.. (esempio le porte di accesso a controllo del traffico)
sensore di prossimità: lavora con segnali agli ultrasuonii e permette di sentire la distanza degli oggetti e il loro movimento (esempio: i sistemi di parcheggio automatici di alcune automobili usano questi sensori)
acustico: attivazione dei sistemi in relazione alla variazione delle stato sonoro di un ambiente;
olfattivo: alcuni robot hanno la possibilità di annusare acune sostanze specifiche, in particolare i componenti di materiali esplosivi, la presenza di gas (i sensori di fumo normalmente lavorano non sulla chimica dell’aria ma sulla trasparenza dell’aria e quindi su una sensibilità visiva);
aptico (tattile): un esempio per tutti sono le tastiere pesate dei pianoforti digitali;
scorrimento: un esempio per tutti è il mouse dei computer a sfera o la trackpad dei notebook;
gusto: alcuni sensori si occupano di riconoscere la concentrazione di certe sostanze all’interno delle soluzioni. Non è un vero senso del gusto ma ci si avvicina;
localizzazione: i sensori degli impianti di allarme che “seguono e pedinano” gli spostamenti delle persone in relazione ad una mappa digitale
equilibrio: come il sestante delle navi che gli permette di stabilizzare il rollio;
vibrazioni: presente il “tilt” dei vecchi flipper?Alcuni sensori, anzi direi, alcune sensibilità della tecnologia sono il risultato di programmi di gestione dei dati, dei software che controllano il flusso di dati e operano in automatico e controllano il flusso continuo dei dati o si presentano come dei varchi da attraversare:
riconoscimento vocale: il riconoscimento del timbro dei suoni;
identità: ID e password;
semantici: ad esempio i software capaci di riconoscere parole e relazioni particolari all’interno del web.

La geografia e la sua nuova edizione “neo”
In una visione da fantascienza tutto il nostro agire è ormai regolato dalla presenza di questi sensori.Le “macchine” che ci assistono (e ci governano) sono un poco come i recettori delle nostre attività: con i nostri spostamenti sul territorio reale (lo spazio geografico) e virtuale (la dimensione “neo-geografica” dello spazio che si approfondisce di contenuti) lasciamo continuamente traccia dietro le nostre spalle riempiendo database, attivando sistemi di sicurezza e di controllo.
La cosa che rilevavo nel post precedente è questa: non esiste ancora una trasparenza del dato olfattivo, una “telepresenza” dello stesso dato, un suo corrispondente digitale: limite o pregio, siamo ancora liberi di usare il nostro naso in assoluta libertà (nel rispetto del più banale decoro e delle convenzioni sociali).

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© John Waters, Polyester (1981), sequenza delle esperienze olfattive in odorama

Gli odori ci riportano alle cose, ci riavvicinano alle esperienze, azzerano le distanze temporali.
(Scrivo questo post dopo avere visitato arte fiera a Bologna).

Molta letteratura del momento, specie architettonica, tende a fare rientrare le esperienze olfattive dentro “l’esperienza geografica” e quindi spaziale. Credo sia un approccio interessante ma a volte superficiale (approfondirò questa mia affermazione nel prossimo post); ribaltando l’ordine del discorso, l’odore riporta noi alle cose e al tempo. Il tempo delle nostre esperienze personali.
Questa “guerra territoriale” che molti stanno compiendo per riportare tutto alla geografia cercando di segnare confini alle emozioni o cercando di organizzare la memoria emotiva mediante uno storyboard di natura cinematografica, credo dovrebbe concentrarsi sull’idea che i sensi sono dispositivi e che dietro di essi c’e’ dell’altro.
Uscendo da una dimensione di godimento estetico basata sul più semplice “appagamento dei sensi” si possa arrivare ad un più profondo appagamento di natura estetica che coinvolge tutto il nostro apparato: psichico, fisico ecc… E’ un problema di porte e di percezioni e di volerle aprire e di non volersi semplicemente affacciare.

Le porte della materia
Quando penso alle mie prime visite alla Biennale di Venezia o ai saloni dell’arte non posso non ricordare il caratteristico odore di pittura che si poteva sentire nelle sale. E’ stampato nella mia memoria. Nell’olfatto partecipano tutti i processi menmonici: sia quelli legati ad episodi della nostra vita che quelli legati a conoscenze semantiche. Annusando le sale espositive, ancora oggi, quell’odore misto di acrilico, di resine, di bitumi mi riportano all’espressionismo astratto esposto a Venezia.
In un film di Aleksandr Sokurov, Arca Russa, il protagonista che ci accompagna per le sale si ferma ad annusare le tele, che odorano del legno delle cornici e dell’olio della pittura; gli odori annullano le distanze temporali aprendo le porte delle esperienze vissute riaggiornandole al presente: la pittura del 1600 diventa contemporaneo grazie alle sensazioni legate all’olfatto. Gli odori ci riportano verso le cose: in questo caso i materiali con i quali si compongono le opere d’arte. La pittura fino alle nuove tinte chimiche odorava di mescole a base di olii. La chiara d’uovo, ecc… Il divisionismo, l’espressionismo e gli altri movimenti si portano dietro il loro odore. Ricorderò per sempre il fetore di carne putrescente della perfomance purificatrice alla Biennale del 1997 di Marina Abramovic che per 22 ore e per 4 giorni, seduta su una montagna di ossa a spolparle con una brusca e acqua. Tutta l’arte che lavora sulla materia ha questa componente non visiva che è appunto l’odore, talvolta il fetore. Un gioco di parole: l’olfatto non ha il “senso del tempo”: il ricordo è presente, evoca istantaneamente.

L’odorama e le “porte digitali”.

E’ l’odore che segna una vera soglia tra il mondo reale e il mondo del virtuale. La sua assenza. Per il momento è un’esperienza vissuta come dentro la tuta dell’astronauta che protegge ma separa dall’ambiente circostante. Dopotutto gli astronauti continuano ad abitare una dimensione “terrestre” in quanto sono sempre immersi in una “atmosfera” conosciuta al proprio corpo. Così qualsiasi immersione nel digitale resta, per il nostro naso, semplicemente inesistente. La schermata è l’evidenza visiva del mondo virtuale come il programma che lo ha generato ne è l’evidenza concettuale.
Qualsiasi esperienza in Second Life, qualsiasi videogame (esperienze certamente immersive) si lasciano dietro questa possibilità di ricordare le esperienze di natura chimica e incisive nella nostra esperienza olfattiva. Almeno per il momento.

Nel tempo sono stati fatti esperimenti: ad esempio il cinema in odorama.
John Waters con il film Polyester (1981), seguito da Hairspray (1988), in una chiave disgutosa ed eccellente allo stesso tempo: Divine (Edith Massey) invita il pubblico a odorare i fetori più quotidiani di qualsiasi individuo in una sua giornata di vita qualunque americana. E’ il primo tentativo di superare il confine, di aprire la porta della percezione. L’Odorama di John Watera è più un esercizio di “comunicazione degli odori” che non una reale esperienza olfattiva che si spera, col tempo, possa anche questa varcare le soglie del digitale.

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Pensierino mattutino: ci sono come delle funi, delle catene che legano i nostri sensi al mondo, e quindi noi stessi ai luoghi. Il nostro corpo dopotutto è sordo, cieco, muto ecc… senza la presenza di “pori” (immagine presa dalla tradizione greca antica) che ci connettono al mondo esterno. A volte, coscientemente, pratichiamo strategie per eludere il nostro corpo, mettendo alla soglia di quei pori apparecchi per modificarne la percezione. Sono dispositivi che ci allontanano il nostro aspetto più legato alla nostra natura animale.
La maschera della foto qui sopra veniva usata dai medici del diciasettesimo secolo che curavano gli appestati. Nel becco vi erano le essenze, profumi, per eludere il segnale del pericolo della malattia e quindi della morte.