LA BATTAGLIA TRA CULTURA ALTA E CULTURA BASSA E’ FINITA
NOI SIAMO I PRIMITIVI DI UNA CULTURA ANCORA SCONOSCIUTA
Calendario, continua.
Non sono un “esperto di informatica”, non sono un sociologo della comunicazione, non sono un ingegnere informatico e non sono un filosofo della scienza. semplicemente uso le tecnologie e con il tempo mi sono fatto delle idee.
Ad esempio…
… che è impossibile trovare un confine ben definito tra la produzione di artefatti digitali e quello del discorso; che non possiamo parlare delle cose, ma dobbiamo sempre e soltanto parlare in quanto parte di essi
… che gli artefatti digitali hanno una struttura superficiale rapidamente accessibile all’osservatore che gli da l’impressione che quella cosa sia stata prodotta per lui
… che in tutto questo siamo coinvolti non con la nostra capacità di acquisto ma con la nostra libera decisione di produzione di significato
… che quello che interessa dei mondi digitali sono le affinità legate al mio corpo e alla mia testa
Lucania nella Cristallball
“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono.”
José Saramago da “Viaggio in Portogallo.
Progettare (prevedere, prefigurare, proiettare…) è una attività simile a quella del viaggiare.
Come nel viaggiare occorre una predisposizione a permettere che le traccie percorse ci conducano verso mete che ancora non si conoscono, se non all’interno di visioni e di parole che risuonano nella testa.
“Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. “Bisogna vedere quel che non si è visto”
Ogni progetto assume una ribellione contro ciò che sono. Ogni progetto è una partenza, una ri-partenza. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito.
In questo blog cerco di non sbandierare troppi entusiasmi sulla tecnologia. Non perché non ne abbia di entusiasmi, anzi; semplicemente mi interessa lavorarci intorno, vedere cosa accade al contorno. Stesso discorso sulla comunicazione e l’innovazione in genere. Questo a premessa di un post letto in Ibridazioni sul Wii Fit. Rimando per il video al post originale, per segnalare semplicemente questa tecnologia che una volta di più non si limita a considerare il corpo come estensione di una mente ma, anzi, come nell’atletica leggera, mente e corpo diventano un unico organo.
Nello sport come nel digitale la parola abilità ha un significato preciso: essere abili significa avere la capacità di svolgere mansioni complesse conseguita con l’esperienza e l’applicazione. Si è abili quando il cervello e il corpo (attraverso una precisa mappatura che li tiene saldamente in relazione) sono tra loro “connessi”, quando sono educati ad esserlo. Essere diversamente abili significa la stessa cosa (come non pensare a Oscar Pistorius). Ciò che cambia è la mappatura del corpo. Chi si muove in second life sa perfettamente cosa significa essere “diversamente” abili: ne ha esperienza ogni volta che vi entra. Non è cosa semplice.Per chiudere: il digitale, con tutto il suo portato di innovazione, è intorno a noi. Tutti gli oggetti che usiamo sono estremamente sofisticati anche per il contenuto di questo “digitale” (era uno dei miei punti del decalogo digitale presentato al corso di Giuseppe).
Oggetti sofisticati comportano abilità sofisticate. Ognuno di questi oggetti richiede una nuova abilità (visiva, motoria, cognitiva in genere) che porta ogni volta a “ricomporre il nostro corpo” in relazione al mondo.
Compito: da approfondire intorno alla mappatura del corpo in relazione alle tecnologie.
A seguito del precedente post, spontaneo risultato di una reverie, sento di dover approfondire un pensiero inespresso, in quanto mette in relazione tre temi: i sensori, la geografia e le intelligenze (biologiche e artificiali).
Le intelligenze (breve storia)
Inizialmente l’evoluzione biologica ha dotato gli organismi viventi prima di un corpo e poi di un cervello, avente funzioni di controllo centrale e dotato in certi casi di proprietà cognitive superiori, non strettamente necessarie alla regolazione del corpo. L’evoluzione dell’intelligenza artificiale (funzionalistica prima, robotica poi) ha inizialmente lavorato su una mente senza corpo, cioè un’intelligenza che aveva il compito di imitare le funzioni simboliche e astratte del cervello biologico evitando inizialmente ogni interazione con un ambiente considerato fonte di disturbo (conosciamo tutti la fatica a concentrarci in certe condizioni).Le prime intelligenze artificiali avevano il principale compito di aiutare l’uomo a sviluppare più in fretta e con il minore rischio di errore calcoli, algoritmi, operazioni ecc… Poi con la miniaturizzazione dei sistemi artificiali e l’introduzione dell’automazione nella produzione industriale e nel controllo dell’ambiente si è lavorato verso la costruzione di un corpo sempre più vicino a quello umano, per prestazioni e per aspetto.
Tra i migliori risultati commerciali oggi la Kokoro giapponese offre degli umanoidi capaci di dialogare con noi non solo con sistemi verbali ma anche con le espressioni del viso. Curiosità: molta attenzione nello sviluppo di Second Life è stata riservata proprio nella definizione delle espressioni degli avatar. Forse uno degli elementi che rende questo mondo così “desiderabile”.
I sensori (un elenco)
Questa ricerca di umanizzazione è passata anche attraverso il tentivo di dare alle macchine dei dispositivi capaci di renderli sensibili a determinate sollecitazioni: i sensori.
I principali sensori della robotica sono in grado di fare le seguenti operazioni (dai più noti ai meno noti):
– temperatura: il più banale;
– visione: telecamere, riconoscimento visivo ecc.. (esempio le porte di accesso a controllo del traffico)
– sensore di prossimità: lavora con segnali agli ultrasuonii e permette di sentire la distanza degli oggetti e il loro movimento (esempio: i sistemi di parcheggio automatici di alcune automobili usano questi sensori)
– acustico: attivazione dei sistemi in relazione alla variazione delle stato sonoro di un ambiente;
– olfattivo: alcuni robot hanno la possibilità di annusare acune sostanze specifiche, in particolare i componenti di materiali esplosivi, la presenza di gas (i sensori di fumo normalmente lavorano non sulla chimica dell’aria ma sulla trasparenza dell’aria e quindi su una sensibilità visiva);
– aptico (tattile): un esempio per tutti sono le tastiere pesate dei pianoforti digitali;
– scorrimento: un esempio per tutti è il mouse dei computer a sfera o la trackpad dei notebook;
– gusto: alcuni sensori si occupano di riconoscere la concentrazione di certe sostanze all’interno delle soluzioni. Non è un vero senso del gusto ma ci si avvicina;
– localizzazione: i sensori degli impianti di allarme che “seguono e pedinano” gli spostamenti delle persone in relazione ad una mappa digitale
– equilibrio: come il sestante delle navi che gli permette di stabilizzare il rollio;
– vibrazioni: presente il “tilt” dei vecchi flipper?Alcuni sensori, anzi direi, alcune sensibilità della tecnologia sono il risultato di programmi di gestione dei dati, dei software che controllano il flusso di dati e operano in automatico e controllano il flusso continuo dei dati o si presentano come dei varchi da attraversare:
– riconoscimento vocale: il riconoscimento del timbro dei suoni;
– identità: ID e password;
– semantici: ad esempio i software capaci di riconoscere parole e relazioni particolari all’interno del web.
La geografia e la sua nuova edizione “neo”
In una visione da fantascienza tutto il nostro agire è ormai regolato dalla presenza di questi sensori.Le “macchine” che ci assistono (e ci governano) sono un poco come i recettori delle nostre attività: con i nostri spostamenti sul territorio reale (lo spazio geografico) e virtuale (la dimensione “neo-geografica” dello spazio che si approfondisce di contenuti) lasciamo continuamente traccia dietro le nostre spalle riempiendo database, attivando sistemi di sicurezza e di controllo.
La cosa che rilevavo nel post precedente è questa: non esiste ancora una trasparenza del dato olfattivo, una “telepresenza” dello stesso dato, un suo corrispondente digitale: limite o pregio, siamo ancora liberi di usare il nostro naso in assoluta libertà (nel rispetto del più banale decoro e delle convenzioni sociali).
Second life; Land Kabuki, Anaglifo © Fabio Fornasari
Un’idea vecchia in un’idea nuova.
La foto qui sopra, apparentemente mossa, è in realtà un anaglifo. Cos’è un anaglifo? Una immagine che, se vista con i giusti occhiali, mette in rilievo ciò che vedete; in altre parola vi da la sensazione dei volumi delle cose.
Ma la cosa più curiosa, forse, è questa: è una immagine anaglifica prodotta in second life, nella land Kabuki. Second life è un mondo ai nostri occhi “virtualmente” tridimensionale, vissuto visivamente come sequenza di immagini che in realtà sono bidimensionali. In altre parole, di questo mondo, abbiamo sempre e solo immagini bidimensionali, a differenza dell’immagine sopra che ci mostra le cose come occupano lo spazio e ci pone in relazione allo spazio. Le immagini tridimensionali fanno appunto questo: ci portano dentro le imagini e costruiscono illusioni di realtà. Una parola a me cara, immersione, è resa ancora più densa di significato se la nostra visione diventa volumetrica, tridimensionale.
Nasce tutto da una complicità tra una fisiologia e una tecnologia della visione.
La visione naturale, se non disturbata, è la sintesi operata dal meccanismo della percezione visiva che si compie sommando la doppia visione oculare: abbiamo due occhi e quindi due cineprese che lavorano in contemporanea. Il montaggio della visione lo opera il cervello delegandone il compito ad almeno tre delle sue regioni. Ognuna di queste aree compie diverse operazioni di controllo e di elaborazione dell’immagine che la retina ha registrato e trasmesso al cervello.
La foto tridimensionale è il trucco del mago che “frega l’occhio” (il tromp l’oeil: la visione “costruita” per antonomasia). Mai come in questo caso il toccar con mano svelerebbe il trucco, l’illusione.
L’avatar questo meccanismo non lo possiede.
L’avatar che gira gli spazi delle land ha invece, come in tutti i media visuali, una visione monoculare: in altre parole è come un polifemo tecnologico, digitale; l’avatar non ha capacità di riconoscere la profondità della visione se non basandosi su una nostra esperienza visiva legata alla forma simbolica della prospettiva (e ad altre cose ancora).
Questa visione stereoscopica, anaglifica è un ulteriore modo di prendere coscienza degli spazi virtuali, rendendoli appunto spazi e non solo coordinate x,y,z matematiche prodotte da algoritmi e tradotte in immagini bidimensionali.
In questo modo second life è anche un modo diverso per apprendere alcuni semplici prindipi della visione e della comprensione delle cose immerse nello spazio (la vecchia cara geometria descrittiva tanto odiata all’università ma risultata molto utile poi, anche nella modellazione solida in cad).
Second life; Land Kabuki, Anaglifo © Fabio Fornasari
Per vedere le immagini anaglifiche serve mettere un filtro verde sull’occhio destro e un filtro rosso sull’occhio sinistro. Se disponete di questi elementi o degli occhialini 3D allora vi sarà tutto chiaro.
Dopotutto “vedere” non è cosa semplice.
Seguono altre immagini da me prodotte in Second Life che permettono a loro volta una visione stereoscopica. Questa volta non servono gli occhialini ma un’altro oggetto per la visione, lo stereoscopio, composto da due lenti d’ingrandimento accoppiate. E’ lo stesso principio del Viewmaster.
Una visione di Midian City. Immagine stereoscopica © Fabio Fornasari
Come sopra: land Kabuki. Immagine stereoscopica © Fabio Fornasari
Altra visione della land Kabuki. Immagine stereoscopica © Fabio Fornasari
Romantic Ice Palace. Immagine stereoscopica © Fabio Fornasari
Buona visione a tutti!
Ieri ho letto il post di Giuseppe dove parlava dei nuovi motori per visualizzare gli ambienti di second life. Viaggiando tra Bologna e Milano sui treni (la dura vita del pendolare), si conoscono vari personaggi; tra questi ho conosciuto diversi programmatori che si guadagnano il pane a Milano. Uno di loro mi ha parlato tempo fa di questi nuovi motori e così li ho provati. Windlight, uno dei nuovi motori, offre, una visione cosmetica di second life: più realistica (più simile al mondo del paesaggismo domenicale che al mondo reale), ma la cosa che mi impressionò di più fu la pelle dell’avatar. Se la componente paesaggio ci guadagna nella visualizzazione del cielo e dell’acqua, nelle architetture ci perde. La pelle dell’avatar, si mostra porosa e assorbe la luce quasi come quella vera. Azzardo (ma lo dico) che evoca quasi un piacere tattile, nel guardarla. Se fate il confronto con la pelle tradizionale di second life notate la differenza. Quella “nuova”, si mostra come se fosse incipriata. Queste immagini sono (forse) più che illusioni di realtà, delle vere e proprie allusioni della realtà. Ricorda davvero una operazione di cosmesi del virtuale.
Il viso di Velas visualizzato con Windlight.
Sotto, altre immagini di paesaggio realizzate con lo stesso motore di visualizzazione.
Giuseppe Granieri mi ha segnalato un blog interessante, dove si presenta il lavoro di Michael Ditullio, un blogger che sta facendo progetti su una transArchitectural Topography e cioè sulla costruzioni di un sistema di comunicazione tra la real life e la second life. Nei suoi progetti e demotape si vedono situazioni di interazione tra le due life. Nel suo blog ci sono diversi collegamenti a presentazioni e a video. Il lavoro diventa interessante nel momento in cui non resta un fatto puramente visuale ma lavora sulle identità all’interno delle due situazioni.
The Gate, vernissage
The Gate, azione e interazione
In sostanza lavora sul paradosso dell’identità e per questo motivo mi tornano in mente i lavori di Dan Graham che usava le nuove tecnologie del tempo, le video camere, unite alla riflessione e alla trasparenza per parlarci dell’identità dell’osservatore e dell’osservato in relazione al desiderio e alla trasparenza. Oggi questa trasparenza è digitale e l’osservatore e l’osservato non siamo solo noi e la nostra immagine riflessa. Non siamo nemmeno solo noi e l’altro dal lato opposto della trasparenza del vetro: chi ci guarda. Una nostra immagine “riflessa” è l’avatar (l’avatar riflette la nostra parte desiderante, si costruisce come desiderio in azione ed è sempre alla ricerca di soddisfarlo). Fermo restando che l’arte è per sua natura sempre interattiva in quanto non può prescindere da una relazione che si stabilisce tra artista opera e spettatore.
Morale: La frontiera tra reale e virtuale è una nuova “trasparenza”, tutta da scoprire.
Dan Graham, Present Continuous Past(s), 1974 sketch | © Dan Graham
Nei mesi scorsi, ricordo, rimasi incuriosito da alcune mappe che giravano sul web. Le ho recuperate e ora le pubblico qui. Mostrano le zone dove i giocatori perdono più frequentemente la loro avatar-vita. Le Death Maps sono il risultato di statistiche sviluppate osservando milioni di giocatori che giocano in rete. Il gioco in questione è half life 2, prodotto dalla Valve e il servizio on line è offerto dalla Steam. Queste mappe mi sono tornate in mente pensando a quanto ho scritto nell’ultimo post e al discorso dei segnali di pericolo che l’ambiente ci comunica e di come l’ambiente stesso sia stato plasmato, “rivestito”, per poterlo sempre riconoscere. Maurizio, un amico con il quale scambio sempre temi, letture e pensieri, mi ha consigliato un libro che non ho ancora letto ma già solo il fatto di conoscerlo mi ha suggerito alcuni pensieri. L’odore tra tutti è un segnale molto forte, diretto. L’odorato è il senso che, se stimolato, comporta una reazione istantanea del nostro corpo. Pensavo agli avatar che non possiedono l’odorato. Non c’e’ nessuno strumento nei mondi virtuali che abbia ancora virtualizzato questo senso. Questo si porterebbe dietro una altra dimensione che non è la memoria in bit ma il ricordo se è vero che l’odorato è il senso del riordo per eccellenza. Attualmente tutta la sicurezza dell’avatar si basa sull’intuizione del gamer che ha come strumenti di sopravvivenza la componente visiva, l’esperienza di gioco e la conoscenza delle regole (acquisita anch’essa durante il gioco). Se i mondi virtuali possedessero un plug-in “senso dell’odorato” i giochi sarebbero certamente molto diversi. Come cambierebbero le mappe?
Una breve storia di archeologia dell’ascolto del digitale.
Ho sempre pensato che l’opera di datazione (attribuire le date) fosse cosa assolutamente affascinante: mi suona un poco come “metter le mani nel tempo”. La macchina del tempo è studiata dai fisici e dai filosofi delle scienze ma sono gli archeologi che, senza possederne una, hanno questa possibilità di spostare cose lungo la linea temporale anteponendo o posponendo, cambiando pesantemente i significati alle cose. Nell’ambito dell’ascolto musicale, specie nell’elettronica, dagli esperimenti di Karlheinz Stockhausen alla Techno, questa datazione si lega alle continue scoperte di nuovi suoni prodotti dalle macchine. La cosa non è riconoscere i vari strumenti, ma sentire nei paesaggi dei suoni quelli particolari che identificano quel periodo: esempio il vocoder per rendere robotica la voce o gli effetti sonori dei kraftwerk ad esempio di Ohm sweet Ohm.
Qui sotto un esempio di questi suoni del 1973 dall’album Ralf & Florian che malcela venature kitsch:
Non è più il problema di riconoscere uno strumento ma un tipo di suono e l’algoritmo che lo ha permesso: la sua natura matematica applicata al circuito stampato.
Roberta mi permetterà di parlare un attimo di una mia memoria: il mio primo home computer e la scoperta dei nuovi suoni. L’ho comperato 25 anni fa e lo pagai (a metà con mio fratello) circa 400 mila lire. Un capitale direi per il tempo. Non mi interessa darne le note tecniche che si possono trovare anche su wikipedia. A quel tempo si ascoltava la musica elettronica dei Kraftwerk, dei Tangerine Dream e Klaus Schulze come unica alternativa ai suoni dei PIL e dei Throbbing Gristle. Tutto il resto era categorizzato come commerciale. Troppo facile all’ascolto. Tutto questo non per moda (o semplice snobismo) ma come avventura verso orizzonti di suono inauditi. Chi aveva il Vic e chi aveva lo ZX giocava a produrre suoni su queste tastiere. Il Casio Tone VL1 era l’oggetto iniziatico verso il mondo della produzione musicale indipendente. Il Korg era cosa da signur. Lo ZX Spectrum aveva un pessimo generatore di suoni ma lavorando con formule matematiche (a qualcosa doveva pur servire studiarne tanta) uscivano sequenze ritmiche, sintetiche, di buon risultato. Associate alla batteria elettronica autoprodotta e ai suoni della tastiera del Casio Tone di Paolo, un amico del tempo, ci si poteva definire anche “musicisti sperimentali”.
Non c’erano gli effetti della kling klang (la casa di produzione delle “macchine” di proprietà dei Kraftwerk), ma le nostre orecchie imparavano ad ascoltare.
Oggi lavoro con un altro Paolo, in termini di musiche, di suoni e di comunicazioni. Ma il desiderio di sperimentare è sempre lo stesso: mettere insieme suoni, possibilmente nuovi nelle loro relazioni, evocativi. Nel mio tumbler qualcosa di questo lavoro di Ferrario e me c’e’ in relazione alla comunicazione dell’arte e della città che stiamo sperimentando.
Come detto anche attraverso l’udito e i suoni (comunicazione non verbale) c’è tanto da imparare.
Come sempre: AphexTwin, Nannou