Archives for category: whole earth

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Answer: from one plane to another, one field to another, creating a surrealistic costruct of the universe, and all the caotic choices that you make in it.
Nigel Coates, Guide to Ecstacity.

Risposta: … da un mondo ad un altro, dalla ricerca di una nuova esperienza per il proprio corpo ad un’altra.
Nei nuovi modi di “vagare” nei nuovi spazi c’è una nuova dimensione tattile che non sempre viene colta.

Quel che è cambiato in questi anni è il sistema di riferimento della nostra possibilità di viaggiare.
Sicuramente sul nostro pianeta ma non solo. Ai viaggi reali, fisici, ai viaggi immaginari dentro la letteratura (dalla mitologia al Manuale dei luoghi fantastici di Guadaluppi Manguel) si sono aggiunti i viaggi nei mondi virtuali. Anche i viaggi nella dimensione dell’immaginario hanno assunto una tattilità che sottolineano come il corpo, reale e proiettato, sia il centro intorno al quale lavorare o quanto meno il necessario punto di partenza. Ne testimonia l’immensa letteratura degli anni ottanta-novanta sul tema del corpo-cyborg, che è tutta da rileggere: mostra la sua potenza proiettiva confermata per molte parti. Ciò che mancava al tempo era la possibilità realizzare “universi sintetici” di massa. Lo sbarco in massa sui mondi di questi ultimi anni è un atto finale/iniziale che ha richiesto/richiede una crescita per le nostre stesse facoltà (qui non si può non citare l’Umanità accresciuta di Giuseppe Granieri).
Abitare i mondi e abitare il proprio corpo/avatar sono un tutt’uno: richiede che si debba riconsiderare il significato scontato di alcune parole e di alcune abitudini. I mondi imnaginati, pensati, progettati e costruiti nella rete, gli universi sintetici, i mondi virtuali, hanno una natura tattile molto forte. Ma si tratta di una tattilità differente che non ha più il senso organico del toccare: “implica semplicemente la contiguità epidermica dell’occhio e dell’immagine, la fine della distanza estetica dello sguardo” (Baudrillard, Cette fois). Lo schermo del computer attraverso il quale entriamo nella virtualità dello spazio è la retina dell’occhio della mente e dunque una parte della struttura fisica del nostro cervello umano.
E in questo sta un’altra interpretazione di una nuova tattilità corporea con il mondo delle cose che ci circondano: da tempo abbiamo esteriorizzato parti del corpo umano all’interno dei “media” che utilizziamo. Ognuno di questi media ha gradi differenti di realtà, ha rapporti differenti con la realtà. Saltiamo continuamente tra dimensioni differenti di realtà e di virtualità.
Quella che si vive è una realtà equivalente costruita con stratificazioni in cui convivono e si compenetrano tra loro elementi del reale, dei desideri, dei sogni dell’imaginario e delle simulazioni. Viviamo immersi in tutto questo.
Ma è il nostro corpo che resta al centro e le sue estensioni/emanazioni/figurazioni.
Alla fine faccio esperienza nei mondi virtuali e il mondo virtuale esiste attraverso la mia esperienza incorporata.
Il mondo virtuale e il mio corpo si definiscono tra loro.
Io abito il mondo virtuali e il mondo virtuale abita con me.
Per questo la mia prima esperienza per me è stata di natura nomadica: ho viaggiato per lungo tampo perché dovevo costruire questa relazione tra mondo e l’avatar, per non vivere l’estensione come amputazione, come suggerirebbe McLuhan, ma come esperienza e quindi arricchimento.
Alla fine, se si semplifica tutto questo come un semplice “gioco”, questo stare nei mondi ha un significato preciso: “giocare” per vivere/conoscere/ragionare/pensare…

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“Sempre, di fronte a un’immagine, ci troviamo di fronte al tempo”
Didi-Huberman*


Dopo la pubblicazione delle foto NASA eseguita dalla Gemini nei suoi vari viaggi degli anni ’60, l’immagine del pianeta – la faccia della terra – è stata riconosciuta come una immagine intorno alla quale si sarebbero costruite delle storie. Infatti non è una immagine semplicemente dall’alto ma è lo sguardo dell’uomo che si guarda e si rispecchia riconoscendosi in una moltitudine. Non è una immagine semplicemente tecnologica in quanto satellitare ma è una immagine che riassume in se tutte le tecnologie che alla fine si traducono in visioni o meglio, che traducono visioni. Il pianeta, la sua immagine ci ricorda che è innazitutto … “the ball of being”.

Stewart Brand è stato certamente tra i primi a pensare che l’immagine del pianeta terra potesse diventare un simbolo potente, evocante tutte le nuove strategie adattabili da parte degli individui per abitare il pianeta secondo nuovi modelli. Sicuramente fu il primo ad usarne la potenza visiva per farlo diventare la copertina di una rivista-manifesto “… for people escaping “to the land”. Escaping to the land ha un significato preciso negli stati uniti. Un esempio: gli artisti lasciano le gallerie d’arte e i pennelli… “Instead of using paintbrush to make his art, Robert Morris would like to use a bulldozer”** dirà Robert Smithson nel 1967.
Così come la nuova fotografia di paesaggio comincia a farsi con i satelliti e il nuovo artista non si firma Alinari ma NASA (oggi GoogleEarth).

E’ il 1968 e la foto ripresa dalla Gemini diventa la copertina del Whole Earth Catalogue, rivista simbolo della controcultura americana; ancora il WEC oggi è citato, copiato, ricercato e collezionato ed è un elemento con il quale fare i conti nella comunicazione delle idee e delle nuove tecnologie. Infatti molti lo riconoscono come il modello del World Wide Web.
Non è un caso se Steve Jobs cita Stewart Brand e la sua copertina nel 2005 in un suo celebre discorso alla Stanford University (qui il video da Youtube). Sono cose già viste e queste cose suonano già vecchie ma rivedere oggi il touchscreen dell’ iPhone è un poco come riannodare un filo che corre dagli anni ’60.
Steve Jobs, per primo era un lettore del WEC, un fun. Forse è lo stesso caso che in un certo senso continua a tenere insieme l’immagine del mondo, tutto ciò che contiene e le strategie degli individui abitanti il pianeta.

*Geoges Didi-Huberman, Storia dell’Arte e Anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007
** Jeffrey Kastner, Brian Wallis, Land and environmental art, Phaidon, London, 1998