Progetto per Post Utopia
Per chi ha letto George Perec o Foucault parole come archivio, dispositivo hanno un significato denso e pieno. Se poi si associa la parola follia la cosa diventa ancora più complessa.
Semplificando: Second Life (per come nasce) è uno spazio dove la parola archeologia non ha alcun significato in quanto non ci sono ancora tracce, sedimentazioni, depositi da interpretare. Per il momento almeno. In una sorta di archeologia a rovescio, dove cioè non essendoci nulla si devono depositare segni tracce e contenuti, Second Life diventa per noi il luogo dove portare e organizzre una conoscenza su un tema importante, spinoso, di frontiera: l’Outsider Art. Uso il termine anglosassone per allontanare le mille possibili varianti di significato all’interno di questo universo (specialmente nel contesto italiano).
Di cosa stiamo parlando?
Operativamente: stiamo – Ginevra Lancaster, Maurizio Giuffredi e io – lavorando per aprire a Post Utopia, venerdi’ 23 maggio, uno spazio espositivo dedicato all’outsider art, in concomitanza con il Festival della Psicologia che si terrà a Bologna dal 23 al 25 e che tratterà anche questo tema.
L’outsider art è “arte” prodotta da persone socialmente emarginate. Tipicamente si tratta di pazienti psichiatrici, per i quali l’arte rappresenta un canale preferenziale di espressione e comunicazione. Viene anche chiamata in 1000 altri modi: arte irregolare, art brut, visionary art, raw art, ecc…
All’estero sono, tanto per cambiare, parecchio più avanti di noi: musei dedicati, gallerie che vendono le opere anche online, e spesso si tratta di progetti no-profit, o comunque collegati a istituzioni.
Ma anche in Italia qualcosa si sta muovendo.
Quel che vogliamo fare è creare a PU un hub di informazione sul tema, che sia pero’ anche uno “spazio di esperienza”.
Un tassello in più per riempire e organizzare i contenuti all’interno dello spazio sintetico (SL) in forma di archivio tridimensionale, dove la conoscienza concettuale si accompagna sempre ad una esperienza emozionale. Organizzare contenuti, archiviare dati ma anche fornire uno strumento di conoscenza.
Il mio inventory, alla categoria “vestiti” è già un buon esempio di archeologia 🙂
Finalmente si chiariscono molti dei cenni che diffondi. Molto interessante, perccato che il 23 non ci sarò. Penso però ad artisti come Yayoi Kusama, esempio felice del percorso di ricerca che mi sembra portiate avanti con questo progetto.
Caro Fabio, tu sai della mia diffidenza nei confronti di SL.
Forse sai anche che mi interesso di outsider art… più per la dimensione outsider che per l’art. Un po’ per lavoro, per esperienze fatte in passato, per la mia amicizia con persone che vorrebbero essere solo artist (e invece, loro malgrado, sono outsider artist).
E così ne approfitto per ricordarti una cosa: l’outsider art perde il suo profondo significato se scollata dall’outsider artist… il matto, per intenderci. Il matto che deve poter partecipare ai progetti espositivi che riguardano i suoi prodotti. Sì, perché i momenti espositivi sono ulteriori occasioni di espressione, oltre che, ovviamente, momenti di integrazione e sacrosanti momenti di gloria dei quali il matto, tanto quanto il cosiddetto normale, ha bisogno.
Quindi, ben venga il progetto di cui parli, ma attenti a non trascurare un nodo centrale dell’outsider art. Altrimenti si rischia di creare un mercato dell’arte parallelo e scollato da quelle sensibilità che, nel caso dell’outsider art, dovrebbero fare la differenza.
Giulia, condivido in pieno quanto dici. Cosi’ in pieno che proprio ieri sera mi son trovata a dire cose molto simili parlando con un’amica che ci era venuta a trovare (in Second Life , naturalmente 😉 mentre preparavamo l’allestimento. Sentire che quel che si è capaci di fare è considerato, apprezzato dagli altri, sentirsi importanti, al centro dell’attenzione per qualcuno, confermati dallo sguardo e dalle parole dell’altro è il bisogno di qualsiasi essere umano (cf Martin Buber); quindi “matti” compresi.
Darsi l’obiettivo di portare gli outsider artists in Second Life da qui a venerdì prossimo sarebbe velleitario. Ma se questo progetto dovesse anche solo servire a fare emergere la necessità che così sia, e a far nascere in chi ha la possibilità di arrivare fin lì la voglia di impegnarsi per riuscirci, beh allora avremmo già centrato un obiettivo 🙂
che dire…a me piacciono le sfide.
e in questo campo le sfide sono parecchie. quelle di cui parli tu e molte altre che riguardano l’incontro fra follia e presunta normalità e i turbamenti che ne derivano. e su questo ci sarebbe tanto da dire, anche a partire dalla funzione dell’arte.
il tema è certamente complesso e le sfaccettature sono molteplici. speriamo che si crei un dibattito aperto, on e off line. intanto in bocca al lupo!
@giulia grazie delle riflessioni… con @ginevra e Maurizio e gli altri speriamo si possa iniziare a parlarne. Io penso che questo “tassello” che faremo sia solo uno sguardo da Enciclopedista 2.0: uno sguardo che invita chi rifette sul tema a partecipare e a condividere. Poi lo sai, io non mi pongo come studioso, non ho strumenti da psicologo dell’arte. Ma mi interessa costruire ambienti che raccontano e fanno emozionare. Ambienti da condividere. Ma gli ambienti si riempono sempre di intelligenza, pensiero e altro ancora.
Questi sono i luoghi sensibili.
[…] che si tiene a Bologna, verrà aperto uno spazio legato alla Outside art sulla land Post-Utopia. Ne parla Fabio/Asian che, con Adriana/Ginevra (entrambi membri di Kublai), sta curando il […]
Non so molto dell’argomento, anche se intuisco che il disagio possa “trasformare l’arte”. Ho conosciuto alcuni teatranti della Basilicata che hanno molta esperienza in questo, con effetti che vanno in entrambe le direzioni: l’arte come terapia del disagio, il disagio come motore di arte. Una compagnia ha fatto un Don Chisciotte interpretato da malati di mente, basta vedere le foto per capire che deve essere stata roba forte. Una che ne sa molto è Mariangela Corona (http://twitter.com/mariangela).
@alberto grazie per le indicazioni che ci dai, e per la segnalazione 🙂
@ giulia grazie al tuo commento abbiamo capito qual e’ la chiave del lavoro che stiamo facendo: porre apertamente le domande scomode che questa di forma di arte suscita. E la tua domanda, grande come una casa, sara’ centrale. La mostra non dara’ risposte, ma se possibile sollecitera’ chi parteciperà a dare le proprie, e magari a porsi, e porre, altre domande.
Grazie di cuore, quindi.
@ginevra: bè, sono contenta di aver dato spunti interessanti. Mi piace l’idea.
Se oggi riuscirò a trovare il tempo, penserò a delle domande.
La prima cosa che mi viene in mente al momento è che le domande debbano essere pensate in un’ottica volta a fare emergere i limiti non tanto delle persone con problemi, quanto i nostri limiti di chi si ritiene normale, i limiti, riconosciuti o meno, che ciascuno di noi ha di fronte alla follia: paure e pregiudizi, forme di repulsione (anche fisica), ecc.
A dopo…
Sono davvero convinta che ogni forma d’arte porti con sé quella vena di follia che, nonostante sia ormai quasi accettata socialmente, rende comunque l’artista un “diverso”, per la capacità di intuire risvolti imprevedibili della realtà, di promuoverne visioni problematiche, o addirittura “rivoltanti”, con l’effetto di scalfire la scorza di perbenismo in buona o cattiva fede della società dei “normali”. Non dico nulla di nuovo ovviamente, ma credo che vada davvero sottolineato che ancor oggi, nonostante i millenni che ci separano dalle prime forme d’arte consapevole, l’artista è per suo statuto un outsider, e come tale spesso visto con sospetto, a meno che non riesca a raggiungere uno stato di successo e di riconoscimento sociale sufficienti ad omologarlo. Fatta questa prima premessa, secondo me indispensabile, è utile al nostro discorso distinguere tra opera d’arte e prodotto artistico; l’opera d’arte, per quanto separata dall’artista, anche nel momento in cui entrerà nel mercato dell’arte, rimarrà indissolubilmente legata a lui, che ne connoterà, con la sua spiccata “presenza”, visione del mondo e stile. Il prodotto artistico, in quanto tale, necessariamente dovrà vivere di vita propria, separata dal produttore, diventerà oggetto di mercato, soggetto a logiche in cui il discorso sull’arte ha relativo spazio. Nell’uno e nell’altro caso la divulgazione è fondamentale, per completare il percorso dall’autore al fruitore, senza il quale l’arte, consapevolmente o meno praticata, non dispiega la sua dirompente, o meno, funzione critica. Nel caso dell’outsider art, non credo il discorso sia molto diverso. Ritengo in definitiva che cogliere l’occasione per divulgare l’outsider art sia importante, soprattutto quando le motivazioni escludono chiaramente fini di profitto, importante per i discorsi che sollecita, per il fatto stesso che ci coinvolge in un dibattito sulla conoscenza, sulle emozioni, sulla bellezza, sul rispetto dovuto alle persone, nelle loro mille sfumature fino alla diversità e alla follia. Comprendo e condivido del resto anche le osservazioni di Giulia, poiché si tratta di autori istituzionalmente tutelati, in quanto ospiti di istituri psichiatrici, e quindi il discorso si fa ancor più complesso e per alcuni aspetti assai delicato, come in tutti i casi in cui esiste una tutela della capacità di scelta esterna al soggetto, tuttavia confermo che soprattutto per questa iniziativa, per la qualità delle motivazioni degli organizzatori, un percorso di divulgazione sia già di per sé un atto di rispetto nei confronti degli artisti ed anche, cosa non meno importante, degli operatori che rendono possibili forme espressive di così alto livello formale. Che questo avvenga in SL, è ancora una motivazione in più di consenso, perché ogni intervento qualitativamente alto, con motivazioni etiche e scientifiche ben chiare, è un contributo a trasformare il gioco dello shopping e delle disco in uno strumento di crescita cultuale e civile, e questo non è davvero poco.
@azzurra: condivido quanto hai detto sull’arte, sulla sua funzione dirompente, critica e comunque “rivoluzionaria”, e sull’artista come outsider in se’. già. questo è un punto cruciale.
In ogni caso, per chiarire meglio il mio discorso, ti racconto la stessa storia che ho raccontato ieri sera a Fabio per telefono. è una storia che mi ha riportato un’amica cubana e, vera o no, mi sembra molto significativa.
Un giornalista nord-americano, con idee marcatamente di sinistra e una grande ammirazione per Cuba, è riuscito, attraverso sue conoscenze, a raggiungere l’isola di Fidel.
La sua intenzione era quella di realizzare un reportage sulla vita nelle campagne cubane e sul lavoro dei contadini.
Sempre per sue conoscenze, riuscì a incontrare Che Guevara e Fidel Castro e propose loro il suo progetto.
Che Guevara, consapevole dell’importanza dei mezzi di comunicazione e della divulgazione delle idee, se ne uscì con una contro proposta: il giornalista avrebbe potuto ottenere il permesso di fare il reportage solo dopo aver passato un mese nelle campagne, vivendo e lavorando con i campesinos.
E così fu. E alla fine il giornalista colse scatti di vita, quella dei contadini e la sua.
Ecco: tutto questo per rimarcare il senso di mettersi in gioco in prima linea.
Il mio discorso sulla follia non riguarda tanto possibili forme di tutela, quanto auspicabili forme di esposizione ribaltata … l’esposizione del “normale” al matto…
@fabio: a quando le foto del progetto?
[…] su SL, appuntamenti paralleli e altrettanto interessanti, meglio descritti nei post di fabio (interessante anche la discussione) e […]
Riporto un piccolo testo preso di Franco Basaglia suggeritomi da Maurizio:
“L’opera del malato perde ogni significato nel momento in cui è compiuta, proprio perchè il suo vero, intrinseco valore sta nel superamento dell’impasse della incapacità a comunicare di chi l’ha dipinta. Per l’artista. il dialogo con l’altro – se pur difficile, ambiguo, spesso indecifrabile – comincia quando l’opera è ultimata: nella tela egli aveva cercato l’altro da sé che gli era impossibile raffigurare figurativamente; ora che l’opera è compiuta inizia la faticosa discussione con l’altro da cui dovrebbe prender forma la sua mancanza di forma”.
Quindi in entrambi i casi si trata di comunicazione e l’opera d’arte, nel caso del malato, va ricordato che è tale fino a quando rimane legata alla malattia, dopo diventa kitsch in quanto oggetto di consumo.
da Franco Basaglia, Kitsch ed espressione figurativa psicopatologica, in Psicopatologia dell’Espressione, numero monografico de Il Verri, n°15, edizioni Feltrinelli 1964
Un’ipotetica archeologia del web è un tema che mi ha sempre affascinato! Almeno da quando mi sono accorto che tutto in internet è destinato a diventare una sorta di immenso cimitero! Purtroppo la scarsa legislazione in tema non fa che aggravare la situazione, ed i limiti tecnici non danno la possibilità di potersi improvvisare in ipotetiche occupazioni coatte di siti o land…
Tra l’altro il caso vuole che ultimamente mi sia interessato a Jung, quindi questa cosa dell’outsider art casca a fagioulo, come si suol dire!
[…] e Maurizio Giuffredi dell’associazione 0gk abbiamo fatto qualcosa anche su Second Life: Outsider Art Archive (OAA), un pensiero sulla produzione e comunicazione dell’arte irregolare in […]