Il primo dell’anno ha una sua caratteristica tutta speciale: è come se fosse sospeso nel tempo. E’ un luogo temporale dove si possono ripensare alcune cose. Così “ripenso” ad un “racconto”, una biografia associata ad una idea di luogo scritto su commissione dall’amico Piero sui temi di una topologia.

(…) Nei tempi in cui nessuna visione Tarkovskiana poteva ancora avermi influenzato il guardare e il riconoscere le cose, con i due soliti amici Stefano e Luca – in tre non facevamo i qurantanni – procedevamo nel quartiere grazie al caso suggerito facendo ruotare un sasso a forma di penna. Di caso in caso il quartiere (tra i più grandi e problematici di Bologna) è stato da noi conosciuto e ogni luogo ci riservava sorprese. Il mio quartiere al tempo era un luogo pieno di scoperte da fare: andava dal greto del fiume Reno fino al grande cantiere della nuova tangenziale urbana.

Lo stesso quartiere era anche un grande “cassetto” dove mettere le cose che non si potevano tenere in casa: brandelli di giornaletti “sporchi” recuperati nei cantieri edilizi che rappresentavano cose al tempo ancora poco chiare da capire, le 5000 lire trovate a terra che di giorno in giorno si trasformavano in ghiaccioli e liquirizie o il fasciame di legna trafugato da ciò che restava di un vicino rivenditore di semilavorati per falegnami che permise a noi di costruire numerose possibilità di divertimento.

trecinni

Credo che lì, “tra la via Emilia e il west” – di Gucciniana memoria – si sia formata la mia coscienza geografica e che quel metodo, privo di speculazioni intellettuali ma solo frutto di uno spirito ludico vero e pieno, sia responsabile di tanto mio modo di fare di oggi.
Il film Stalker di Tarkowski mi ha dato solo delle conferme: anche lì, nella zona, a guidare è lo stalker che non pensa in relazione a una conoscenza ma in relazione a un’esperienza del luogo.
Ho sempre pensato questo in relazione alle situazioni e ai luoghi. Ho sempre diffidato delle emozioni legate alla letteratura dei luoghi in favore di un’esperienza diretta.

La letteratura dei luoghi da me preferita è quella più lieve dei racconti di Robert Walser sulla passeggiata, di Peter Handke sui pomeriggi a zonzo dello scrittore medesimo: la presentazione di un’attitudine a stupirsi, già introdotta da H.D.Thoreau nel suo saggio sul Camminare.
La stessa attitudine di uno spirito lieve che si lascia corrompere dal caso è sperimentata anche nel mondo dei manga da Jiro Taniguchi in diversi suoi romanzi a fumetti.
I luoghi migliori sono sempre quelli che al momento si trovano davanti allo sguardo e che mi chiedono di essere conosciuti. Si presentano complici. Non c’è luogo che non nasconda una storia da scoprire e da vivere e infine da raccontare.

Ci sono luoghi che sedimentano dentro di noi e che vengono rivisitati come si faceva con le favole. “A mille ce n’è…” cantava la canzoncina e come una formula ipnotica ti apriva all’esperienza della favola, dove si imparava molto più di una storia: si imparava a stare al mondo. Potere delle metafore e della capacità dei bambini di assorbirle senza bisogno di spiegazioni.
Così sono i luoghi.
Spesso, sono pezzi di strada brevi, percorsi a piedi, ma all’interno della loro visione mi sento particolarmente a mio agio: la via Francesca a Sambuca Pistoiese, un tratto di 30 metri fatto di luce, pietre, frasche. Un’esperienza che si colora di viola chiaro improvvisamente. In quei trenta metri vieni ripagato di tutta la fatica per raggiungerli. L’effetto funziona sia che sia nuvoloso, sia che ci sia il sole perché comunque quel colore risuona in quel tratto e solo in quel tratto.
Come tutte le favole hanno un termine, così uscire da un luogo, da un racconto, ha bisogno di un evento come lo schiocco delle dita dell’ipnotizzatore al termine della seduta. Uscire da un luogo: non lo si può fare girandosi all’indietro ma sempre guardando avanti, come insegna il mito.
E’ come per tutte le storie: per ascoltare un luogo “… basta un po di fantasia e di bontà…”.
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