Archives for category: fotografia

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pittura di battaglia – 1 © fabio fornasari

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pittura di battaglia – 2 © fabio fornasari

“Gli unici due sistemi possibili per osservare il mondo: la logica e la guerra”

Arturo Pérez-Reverte

In un post recente, ho parlato di una grande pittura che rappresenta una grande battaglia di fine ottocento. E’ un tema molto speciale che da 500 anni viene “praticato” dagli artisti per raccontare i “valori” e la crudeltà della guerra. L’arte di fare la guerra è cambiata diventando estremanente “sofisticata”, così come di pari passo anche la stessa rappresentazione della guerra si è arricchia di tecniche che l’hanno altrettanto resa “sofisticata”.

A tal proprosito, della pittura di battaglia, Arturo Pérez-Reverte ha scittto un romanzo, Il pittore di battaglie, in cui il protagonista, per molti anni fotografo di guerra, si isola dal mondo per dipingere un grande affresco che rappresenti tutte le guerre, dall’antichità ai giorni nostri. In questo romanzo ci mostra diverse cose ma quello che non si vede ma del quale si sente parlare molto è appunto questa rappresentazione di una battaglia che dura da prima della “storia”. Una battaglia senza tempo, continua e infinita. La condizione umana sembra esser eternamente legata a condizionoi di battaglia, di guerra. Secondo Pérez-Reverte, la guerra è il grande laboratorio della condizione umana: analizzandola secondo il modello della logica scopriamo il meccanismo dell’universo.

Oggi prima che di pittura di battaglia parliamo di foto di guerra. Non sono più artisti che, documentandosi, ri-vivono un dramma nell’atelier e lo raccontano (Guernica, La battaglia di Anchieri…). Il fotografo di guerra è prima di tutto immerso nella battaglia che ritrae. Lui è lì.
La fotografia come arte è un terreno pericoloso, perché chi fotografa ha la pretesa di rivelare la verità, invece è sempre un’interpretazione. Le foto di guerra vogliono mostrare l’orrore come un eccezionale scarto dalla normalità, ma purtroppo non è così. La guerra è fatta da persone normali che fanno cose normali, è la vita spinta ai suoi più drammatici estremi. Anche il libero arbitrio è abbastanza limitato: l’uomo è predatore, come la maggior parte degli animali. Ma in più ha l’intelligenza, che rende più devastante il suo comportamento. Parole di Arturo Pérez-Reverte.

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estate 2007

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milano – bologna 27 marzo 2008 © Fabio Fornasari

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milano – bologna 27 marzo 2008 © Fabio Fornasari

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milano – bologna 27 marzo 2008 © Fabio Fornasari

Il viaggio quotidiano senza parole.

CONFESSION

Today, I’m tired of ex/changing identities in the net.
In the past eight hours,
I’ve been a man, a woman and a s/he.
I’ve been Black, Asian*, Mixteco, German,
and a multi-hybrid replicant.
I’ve been ten years old, twenty, forty-two, sixty-five.
I’ve visited twenty-two meaningless chat rooms
(I’ve spoken in tongues)
As you can see, I need a break real bad;
I just want to be myself for a few minutes.

El Webback

A proposito di identità.

(pubblicata in: Guillermo Gòmez-Pena, Ethno-Techno, Writings on performance, activism, and pedagogy; Routledge, 2005)

*il grassetto è una mia licenza

Fotografare e farsi fotografare, lo si era già detto qui e qui ha a che fare con l’attività psichica. Dicevo che stavo cercando una immagine “istituzionale” di me. Era il 2004 quando mi è stata fatta lo foto che segue. Non ho scelto questa perchè sono più giovane, ma perchè io non mi ci riconosco, ma forse gli altri possono riconoscermi. L’immagine pubblica di sé non è mai propria.

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Io secondo Nabil Boutros ad una mostra milanese organizzata da Afritudine (2004)

La fotografia ha uno e più poteri: viene in soccorso per portarci “ricordi” che non abbiamo. Oppure ci aiuta a ricordare situazioni luoghi che potremmo “perdere” dentro la nostra memoria.
Esiste un piacere nel guardare le foto che consiste nello scoprire, nelle fotografie, relazioni e significato segreti. Questo secondo Tisseron (“rubo” dal saggio di Maurizio Giuffredi, Preliminari a una psicologia dell’autoritratto fotografico; in Autoritratto psicologia e dintorni, Clueb 2004) si ricollega con il desiderio del bambino di vedere la scena originaria… L”‘è stato ” di cui ogni fotografia testimonia, avrebbe così il potere di portarci molto lontano e al di là di ogni contenuto aneddotico, nel cuore del problema, del cosidetto spettacolo delle origini.
Non è comunque sempre semplice “riconoscere” una immagine di sè come propria. Specie per me. Io possiedo di me poche immagini che ritengo possano rappresentarmi. Ho sempre avuto un’idea precisa di cosa dovrebbe essere il ritratto fotografico al di là di ogni cosa: uno scatto unico che deve riassumere l’evento in un colpo solo, one shot.

Questa foto me l’ha scattata un fotografo Egiziano, Nabil Boutros, ad una mostra milanese organizzata dall’associazione culturale Afritudine.
Questa foto ha una sua particolarità: rido, cosa che non faccio mai nelle foto. Me lo ha imposto lui. il fotografo che mi ha messo davanti ad un fondale lucido nero e mi ha detto in francese di ridere. E io l’ho fatto.

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Io+Io+Io+Io (Come mostrarmi?) © Fabio Fornasari

Oggi mi è stato posto un problema: cercare un’immagine di me che sia “pubblicabile”, una mia “immagine istituzionale” (Elena dice che in www.Linkedin.com non si può non averne una). E’ stato facile trovarne una per l’avatar, ma molto più difficile è trovare per me l’espressione giusta qui, nella first life. Ogni foto, anche la propria, è un progetto. Lo si vede benissimo in questi giorni pre-elettorali dove tutti i politici hanno dato di se una loro immagine istituzionale. Questa che pubblico in forma di autoritratto è una domanda prima di tutto: come mostrarmi?

Votate per me, non serve a nulla. Do it.

Senza troppe parole

Quanto detto per i musei in real life funziona ugualmente nei musei di second life? Lo sguardo e la visione hanno lo stesso valore?
C’è una profonda differenza innanzitutto: la piattaforma Linden innanzitutto uniforma il linguaggio, la “tecnica”, di tutto l’insieme in quanto è la piattaforma la “tecnica” (quando le immagini non sono importate in Jpg ma le opere sono prodotte direttamente in SL). Ovviamente ho usato qui la parola “tecnica” intesa come quella serie di operazioni utili a produrre l’arte: insieme di materiali e abilità.
Opere e corpi (avatar) si fondono così naturalmente in una unica visione che amalgama, include. E’ una delle prime evidenze della dimensione immersiva di Second Life. Come fa notare anche Velas di una immagine che le ho scattato che ha cambiato la sua visione di quell’opera di Milla.

L’occasione per fare questo ragionamento è il vernissage della ricerca fotografica di MillaMilla Noel al museo del Metaverso, un’insieme di autoritratti e “pensieri visivi” sulla femminilità in SL. La pantomima sopravvive anche qui come nella Real Life. Roxelo Babenco in questo ha centrato un obiettivo: costruire un museo (in continua evoluzione) come teatro, scena dove rappresentare, oltre che presentare, l’arte di second life.
Sarei curioso di saper cosa ne pensano Laura e Liu.

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MillaMilla (vista di spalle) espone al Museo del Metaverso

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Guardare gli avatar che guardano nel Metaverso

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Guardare gli avatar che guardano nel Metaverso

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MIO MAO, primo maggio 2001. Autoritratto. © Fabio Fornasari

Oggi a Milano, allo spazio Triennale Bovisa, inaugura una bellissima mostra di Anselm Kiefer sulla sua visione di Mao. Da vedere assolutamente.
Non potevo non parlare, data l’occasione, della mia visione di me in forma di autoritratto nei panni di Mao.
Sono passati ormai sette anni da quando ho fatto il primo MIO.
Farsi un autoritratto è un rito attraverso il quale siamo passati tutti.
Il Mio è un progetto di autoritratti in forma di piccoli libretti quadrati da tenere in tasca.
Ritrarsi nei panni di qualcun altro ha un senso che che è legato al volersi rappresentare. Normalmente un autoritratto è un cortocircuito della propria visione (io guardo me che mi guarda). In questo caso era un poco come compiere un rito sciamanico: chissà se qualcosa di lui entrerà in me. Un delirio di potenza dopotutto (o il suo desiderio espresso e rappresentato).
A differenza di uno specchio, un nostro ritratto – una fotografia – ci mostra per quello che siamo (quantomeno in apparenza). Lo specchio ci mostra di noi sempre una immagine simmetrica. L’autoritratto fotografico no. Presuntuosamente ci mostra per quello che siamo. Una pura illusione, ovviamente. La presunzione di verità della fotografia è sempre stata confutata dalla pratica stessa della fotografia: raramente ci riconosciamo nella fotografia che ci viene fatta.

Nel suo saggio Preliminari a una psicologia dell’autoritratto fotografico, Maurizio Giuffredi scrive: “la costatazione dolorosa che la rappresentazione fotografica non può mai rappresentarci, che non può esserci mai visione oggettiva ma ancora, sempre e soltanto, visione soggettiva, un po’ come nell’arte in generale, può portare a liberarsi definitivamente dal problema dell’oggettività per cercare, nell’autoritratto soprattutto, non tanto un’inutile fedeltà fisiognomica, ma significati profondi legati al vissuto e alla poetica di chi si fotografa. E dal momento che la fotografia è democratica, diversamente dall’arte, generalizza questa constatazione dolorosa e rende ognuno di noi in grado di condividerla.”*
*pag 129. (Maurizio Giuffredi, Preliminari a una psicologia dell’autoritratto fotografico, in: a cura di Stefano Ferrari, Autoritratto, psicologia e dintorni, Clueb, 2004)

The begininnigs of EVA (extra-vehicular activity): opening the door.

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Non so se deve essere sempre così ma sembra che per ogni “prima volta”, nella fotografia, si debba avere sempre un visione disturbata, incerta. Lo avevo mostrato già qui.

Il 18 marzo del 1965, quarantatre anni fa, il cosmonauta russo Aleksey Leonov lasciò la navicella spaziale per fare la prima passeggiata umana nel cosmo. L’immagine d’apertura è la prima foto conosciuta (in occidente) di un cosmonauta che cammina nello spazio e che poi è stata pubblicata in una rivista americana del 1976 riprodotta qui sotto.

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Space world, The magazine of space news, Febbraio 1976. Vol. M-2-146
(foto di copertina dell’agenzia spaziale sovietica TASS-APN)

La rivista apre con una titolo davvero d’effetto e preciso nell’esporre un’idea chiara: the begininnigs of EVA, opening the door (trad.:l’inizio delle attività extra-veicolari: aprire la porta).
Per 4 anni cosmonauti e astronauti hanno attraversato il cielo continuando a “cadere” (il volo nello spazio è una lenta caduta) verso il rientro programmato. Uscendo verso l’esterno (compiendo l’eva: extraveihicular activity) per la prima volta si sono fermati, hanno segnato il passo. Hanno fatto il “picinic (solitario) lungo il ciglio della strada” (magari pensando ad Arkadij e Boris Trugaqrskij di Stalker). E’ vero che l’ambiente terrestre è sempre presente, protetto dentro le tute collegate alla cabina, ma la stessa tuta non è più sulla Vostok; è messa lì sul ciglio della strada assiem al cosmonauta. La foto pubblicata più sopra sembra lo scatto preso dallo specchietto retrovisore (in realtà è lo scatto fatto ad un monitor).
Nello stesso articolo dove viene pubblicata la foto di Leonov, compare anche la foto del primo astronauta americano. la mostro qui sotto:

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La foto è di tre mesi dopo (sembra passato molto più tempo però). Come recita la rivista, per tutte le immagini riprodotte qui sopra: Photos courtesy of Nasa.

Un’altra foto:

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Questa è nuovamente una “prima immagine” pubblicata questa volta nel mondo sovietico; tratta da K Zvedzam (trad.it.:verso le stelle) un libro non troppo interessante dal punto di vista del viaggio nel Cosmo ma mostra bene il lavoro collettivo a terra. Del 1986 pubblicato da Izdatelstvo “Planeta” Moscva 1986 (trad.it.: Pubblicazioni Planeta, Mosca, 1986)

Di questi due eventi oggi si possono trovare molte immagini anche di qualità sul web. Tra le altre queste due miniature molto nitide. A differenza della altre non lasciano molto spazio a fantasie o a racconti. Forse è questo il motivo per cui lanciano le “prime immagini” se ne trattiene l’immagine chiara in cambio della visione?

Ed white, Nasa in basso a sinistra; Aleksey Leonov, Agenzia Spaziale Sovietica, in basso a destra

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autoritratto collettivo: Io e Asian, real life e second life © Fabio Fornasari

Le mie orecchie ultimamente risuonano di parole come social network, nella versione italiana reti sociali, social bookmark, ecc… E la fotografia sociale?
Stasera in unAcademy ho “appeso al muro” il mio ritratto da avatar che già ho pubblicato (ormai una vera fototessera del mio avatar), qui e qui. Non sono stato l’unico:
Velas, Monica, Juni, Deneb, Eliver, Night, Clarita, Sunrise, Joannes, Liu, e altri ancora arriveranno… siamo lì appesi con le nostre “fototessere”.
Un tempo portavano il nome di “fotografia concerned o sociale“: “Fra i servigi utili che rende il ritratto fotografico bisogna annoverare quello sovrano per la facile identificazione delle persone. In questa parte si può dire sia pervenuto ad una necessità sociale,…” ( da: Carlo Brogi, Il ritratto in fotografia, Firenze 1846)

Citazione colta da un Libro che viene da un tempo non troppo digitale: Storia sociale della fotografia di Ando Gilardi, Bruno Mondadori, 2000

P.S: quale sarà il ritratto collettivo di unAcademy?

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Steefano, Monica, Asian, Junikiro, Clarita, Velas e Deneb. Alcuni degli avatar “appesi”.
Sotto: in primo piano Joannes a fianco Eliver, Sunrise, Fabius, Giovy e gli altri.

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“Questa donna su Marte fa impazzire Internet”
Titolo dal portale www.Messaggero.it del 24 gennaio 2008

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Sandro Botticelli (Firenze 1445-1510)
Venere e Marte – 1483 ca. – tempera su tavola – cm. 69 x 173 – Londra, National Gallery

Quanto accade da alcune ore sul web ci parla molto bene del nostro modo di guardare. Forse i marziani sono tutti psicanalisti e ci stanno analizzando con le macchie di Rorschach. Quando si dice il caso. Proprio ieri, il 23 gennaio, scrivo di fotografie e di quanto siano difficili da leggere, conoscerne i contenuti, Poi leggo sul 24′ (freepress del Sole 24 ore), di una foto scattata su Marte dove sembrerebbe riconoscersi la figura di una persona.

Se sia donna o uomo poco importa ma questo già la dice lunga sui nostri pregiudizi: solo perché sembra essere una persona con abito lungo si dice che sia donna: forse le “maison” decidono come ci si veste anche su Plutone e Giove?
Sarà, forse, per i capelli lunghi? Dagli anni 60 in poi non misuriamo più l’appartenenza di genere a centimetri di capello.

Le interpretazioni che si leggono sui vari giornali, pagine web, ecc… mi suggeriscno di ricordare un aspetto della ricerca che rivela un difetto: continuare a cercare ciò che già si conosce è un limite alla conoscenza stessa. Con un poco più di fantasia si potrebbe vedere, in quell’ombra, un sasso di Munari. un elefante a zampe all’aria, o un avatar che balla in second life. Ufologi, scientolo, cattolici, scienziati, idealisti: chiunque può vederci quello che vuole.
Forse ha solo ragione la Cameron con il suo libro The myth of Mars and Venus (il mito racconta di Venere che scende su Marte e del trionfo dell’amore); Deborah Cameron mira a rompere altri tipi di pregiudizi, non visivi ma legati alla lettura dei comportamenti dei sessi e delle identità di genere: il pregiudizio del Marte taciturno, furente e guerriero e la donna-Venere logorrica, sentimentale tra le nuvole.