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SENZA IMMAGINI
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Come si guarda o come non si guarda?

Ci sono momenti dove ci si trova nell’imbarazzo e dove ci si rende conto che gettare anche solo uno sguardo può avere qualcosa di morboso. Tutte le volte che mi capita mi torna in mente un semplice racconto di Calvino che ha Palomar per protagonista.
Nel racconto il suo personaggio sta studiando in quale modo dirigere lo sguardo e dove. La causa di ciò?: Una ragazza che prende il sole a seno nudo. La vicenda del signor Palomar e del suo imbattersi nella bella ragazza, rivela complessità inaspettate nonostante il racconto sia semplice e chiaro: l’uomo passeggia sulla spiaggia e, davanti alla ragazza a seno scoperto, non sa come comportarsi: quel seno può o deve guardarlo o ignorarlo? Saggiamente sceglie la seconda opzione: il signor Palomar, non ha intenzione di infastidire la ragazza e tanto meno vuole dare l’impressione alla ragazza di essere un cascamorto che vuole sedurla; ma neppure un moralista che getta lo sguardo altrove di fronte a qualcosa di così bello come il seno di una ragazza. Per questo motivo torna sui suoi passi e alla fine lo guarda. A quel punto, la ragazza si mostra infastidita, credendo che lui voglia corteggiarlo. L’esatto effetto contrario.
Dopotutto Paolmar ha un pensiero semplice in testa: verificare, ad ogni passaggio, se le regole che egli si dà, per osservare o per ignorare il seno, siano giuste. Ad ogni mutamento di pensiero sulla strategia possibile ne verifica l’atteggiamento e quindi il risultato.

Questa domanda sul potere o dovere guardare ci viene posta sempre di fronte ad un fatto eccezionale, un fatto isolato dalla continuità “solita”, quotidiana. DI fronte a “questi eventi” ci si pone sempre se si deve o non si può guardare. Ma il problema è in entrambi i casi come farlo, dimenticando che ignorare il problema del guardare sia l’unica soluzione.
Allora ci si costruisce un percorso che deve dimostrare che quello sguardo ha un interesse non morboso, ma che ne contenga dei livelli di coinvolgimento: guardando partecipo, ma non troppo.
Contemporaneamente è uno sguardo che veicola la sua appartenenza al giusto modo: si mostra per essere corretto, all’interno di una etica del guardare. Come tale deve essere comunicato.
Ma anche la critica allo sguardo sbagliato diventa il tema dello sguardo stesso.
Questo sguardo è supportato da un “io” da un qualcuno che lo guida e che alla fine lo fa per se stesso, spesso cercando una catarsi quando non cerca solo di essere il risultato di un pensiero speculativo.

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Аэлита, Aelita, Queens of Mars, (1924) regia Yakov Protazanov
Estratto da YOUTUBE. Musica di Cleaning Women

Gor made a telescope that enables to observe life on the other planets
Gor: A great invention, but il must be kept a secret
Aelita the Queen of Mars: Show me some other worlds! No one will find out
Gor: I’ll show you life on our neighboring planet

Dialogo dal film

Guardare una cosa è un poco come fare penetrare la cosa stessa attraverso gli occhi, permettergli di entrare nella nostra testa, dentro di noi affinché la cosa possa farsi conoscere. Ma è anche come se il nostro stesso occhio penetrasse la cosa per renderla nota al cervello, come se una mano fatta del più semplice sguardo attraversasse la cosa per appropriarsene.
Questo è ciò che accade quando si fa esperienza della tele-visione, intesa non solo come elettrodomestico: il nostro spazio viene attraversato da storie di altri, da pensieri di altri quando nello stesso tempo la telecamera ha agito verso quegli stessi altri. L’altrove diventa presente.

Aelita è un film che mostra l’ingresso nell’altrove: non è fantascienza alla Jules Verne dei Meliès, una “falsa partenza” per il cinema di fantascienza; non è la realizzazione di un sogno e non è nemmeno un film di “sola propaganda sovietica” come spesso viene liquidato. E’ l’ingresso in un mondo vero e reale costruito da una mente che è presente e reale; è un pensiero preciso sul suo tempo.
E’ il primo film dove viene mostrato lo scrutare in altri mondi, per cercare nell’altro un senso per il proprio mondo e non per costruire una via di fuga onirica: è espediente per parlare della Russia e della rivoluzione ma anche per fare entrare in una “galleria d’arte contemporanea a scena aperta” il grande pubblico, per farlo entrare nella nuova dimensione estetica che sta cambiando. Marte è costruita in chiave cubo-futurista ad opera degli scenografi Isaak Rabinowitsch, Serger Koslowski e Viktor Simow; i costumi sono di Aleksandra Exter: è un viaggio nel presente della ricerca più alta dell’arte del tempo.
Protozanov esce con il suo film nel 1924: il telescopio che permette la tele-visione della vita sulla terra precede la stessa parola di 23 anni: solo il 10 marzo del 1947 verrà coniato il termine televisione e il suo acronimo TV ad Atlantic City.
Il guardare altrove o in un altro tempo è sempre stato un modo utilizzato dagli scrittori per parlare del presente. Un esempio: se il romanzo dell’Ottocento è una “virtualizzazione” del mondo, nel senso che isola e rappresenta la realtà per osservarla da vicino e poterla capire meglio, il Manzoni ci porta dentro ad una visione seicentesca per parlare delle questioni del proprio tempo (l’ottocento).
Nel film si apre una finestra e si capisce che questa apertura porta alla conoscenza di un altro che ci mostrerà come siamo fatti noi stessi.
E’ un film molto datato per certi aspetti ma anche molto attuale per altri; tra questi nel mostrare le implicazioni dell’osservare “altri mondi”, fare esperienza di altri mondi… In altre parole nel mostrarcene una causalità.

C’è un aspetto di Rinascimento virtuale difficile da cogliere se si osservano le fotografie su flickr. E’ però nelle parole e negli scritti di Mario: la dimensione sociale dell’arte prodotta in SL. In fondo questa mostra (a fianco dei suoi testi) è il primo fondamentale passo per una storia sociale di Second Life.
A chiusura dell’articolo metto la tenda-comunicativa esposta nella mostra per fornire i primi strumenti di lettura, le chiavi per capirne meglio i contenuti. Un oggetto che fa parte di una serie completa che nessuna fotografia da sola può trasmettere: la tenda con il testo introduttivo di Mario. Tutta la mostra è pensata come una estensione concettuale della rete: la comunicazione non è avvenuta su pannelli museografico, su pannelli didattici, ma è il corpo stesso della mostra. Abbiamo usato la stessa modalità del “mondo” di comunicare attraverso l’ambiente e non attraverso le targhette… ma chi non l’ha ancora vista non può coglierne i valori di novità. E’ una mostra che non può essere giudicata dalle sue fotografie. Come Second Life deve essere vista dall’interno.
Non è una mostra che promuove singoli artisti ma un evento che sta dentro ad una grande narrazione collettiva che è nata in un luogo preciso: Second Life. E’ questa la prima chiave di lettura che differenzia questa iniziativa da qualsiasi altra.
E’ la risposta ad una sfida difficile ed offre un appoggio a tutti i residenti che si sentono parte di una nuova collettività condividendone le basi. Non è la soluzione al problema di lanciare nuovi artisti, individualmente riconosciuti, ma la presentazione di un lavoro che nato in un luogo specifico (di nicchia ricordiamocelo) tenta di farlo diventare universale (rompere la nicchia, dilatarla, allargarla al mondo reale). Trasporre nel reale le cose di second life, come già detto, è paragonabile al Jet-Lag. Tutto cambia. Lo statuto delle cose. Ciò che resta è la dimensione di “mondo”, la dimensione universale della ricerca. L’appartenere ad una idea comune declinata in modo diverso. L’arte dopotutto è sempre stato questo, la costruzione di valori condivisi.

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LA BATTAGLIA TRA CULTURA ALTA E CULTURA BASSA E’ FINITA

NOI SIAMO I PRIMITIVI DI UNA CULTURA ANCORA SCONOSCIUTA

 

 

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Asian al Teatro alla Scala (Milano region)

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Al teatro di Voghera, cantiere

La cosa è evidente: è l’occhio che si adatta alle situazioni e non il contrario. Le cose intorno a noi sono le invarianti, tangibili nella loro presenza. A noi non resta che chiudere gli occhi, ma così facendo, ci apriamo verso un vuoto che ci rimanda a visioni che ci riguardano: ciò che si è appena visto e ciò che si ricorda.
La visione si scontra sempre con l’ineluttabile realtà di fronte ai nostri occhi. Ho nella testa alcune parole di Didi-Huberman sul tema del vedere e di una scissione dello stesso (tra vedere e toccare): vediamo ciò che è tangibile, toccabile “come se l’atto del vedere si concludesse sempre con la sperimentazione tattile di una superficie che si staglia davanti a noi, un ostacolo forse traforato, travagliato da vuoti” (pag 6, Il gioco delle evidenze, Fazi editore, 2008)
L’atto del guardare in RL è sempre legato alla nostra persona. La sua “tattilità” è chiara in quanto per spostare la visione dobbiamo comunque muovere il corpo. Aprire e chiudere le palpebre non è solo legato alla visione (all’atto di vedere nel senso della percezione visiva) ma è legato anche al nostro corpo, come il cambiare punto di vista è legato alla nostra posizione nello spazio.

La visione in second life è differente (non dimentichiamo che comunque l’avatar non vede ma ci trasmette informazioni su cosa lui “vede”: nell’ultimo atto siamo comunque sempre noi a tradurre in visione).
L’occhio che guarda – e che cerca disperatamente cose da guardare – si può spostare autonomamente rispetto al corpo-avatar: può essere in soggettiva ma anche funzionare come una steady cam: se blocco la visione su un altro avatar si genererà un piano sequenza (una forma precisa – narrativa – della ripresa cinematografia) che tiene al centro della visione quell’avatar (il target).
Inoltre le cose in second life hanno una caratteristica particolare: davanti a essi non c’è niente da credere o da immaginare perché non mentono, non nascondono niente, nemmeno il fatto di essere vuote. Come le opere del minimalismo “questi oggetti visivi che corrispondono senza resti ai propri confini sospendono ogni capacità ulteriore di immaginare, risucchiandola nel loro muto ingombro”.

Senza troppe parole

Quanto detto per i musei in real life funziona ugualmente nei musei di second life? Lo sguardo e la visione hanno lo stesso valore?
C’è una profonda differenza innanzitutto: la piattaforma Linden innanzitutto uniforma il linguaggio, la “tecnica”, di tutto l’insieme in quanto è la piattaforma la “tecnica” (quando le immagini non sono importate in Jpg ma le opere sono prodotte direttamente in SL). Ovviamente ho usato qui la parola “tecnica” intesa come quella serie di operazioni utili a produrre l’arte: insieme di materiali e abilità.
Opere e corpi (avatar) si fondono così naturalmente in una unica visione che amalgama, include. E’ una delle prime evidenze della dimensione immersiva di Second Life. Come fa notare anche Velas di una immagine che le ho scattato che ha cambiato la sua visione di quell’opera di Milla.

L’occasione per fare questo ragionamento è il vernissage della ricerca fotografica di MillaMilla Noel al museo del Metaverso, un’insieme di autoritratti e “pensieri visivi” sulla femminilità in SL. La pantomima sopravvive anche qui come nella Real Life. Roxelo Babenco in questo ha centrato un obiettivo: costruire un museo (in continua evoluzione) come teatro, scena dove rappresentare, oltre che presentare, l’arte di second life.
Sarei curioso di saper cosa ne pensano Laura e Liu.

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MillaMilla (vista di spalle) espone al Museo del Metaverso

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Guardare gli avatar che guardano nel Metaverso

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Guardare gli avatar che guardano nel Metaverso

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Senza troppe parole.

Uno dei massimi piaceri che si possono provare alle mostre è vedere come le opere si amalgamo nella vita delle persone. Se la nostra cultura è visiva, nei musei lo è ancora di più. Musei immersivi e inclusivi del corpo attivato verso la comprensione dei temi sono pochi. Normalmente, come in questi casi, i musei ci portano sulla soglia delle opere per poterle guardare. La cornice è la prima soglia, visibile, Ma al di fuori della cornice la vera corporeità si manifesta in pantomime interessantissime da guardare. Allora opere e corpi vivono nell’insieme una nuova “vita” in questo sguardo. Anche in questo caso il museo diventa “site specific” per produrre arte che dialoga con il contemporaneo.

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guardare gli altri che guardano… Kaspar David Friedrich, estate 2006 © Fabio Fornasari

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guardare gli altri che guardano… il Pergamon (tenendo in mente Thomas Struth), estate 2006 © Fabio Fornasari

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guardare gli altri che guardano… il Pergamon (tenendo in mente Thomas Struth), estate 2006 © Fabio Fornasari