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25 Novenbre 2010, ore 15.30 ore 18.20

ElapsedTime: l’inarrestabile marcia del Quarto Stato verso la sua collocazione nel “Novecento”. Il viaggio finale.

In questi ultimi 10 anni, percorrendo il mio cammino lavorativo e di ricerca, ho incrociato personalmente per almeno quattro volte un’opera che definirla semplicemente un quadro è limitativo: il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Sono stati quattro incontri allo stato fisico e non semplicemente simbolico anche se con questo livello, con il simbolico, ho dovuto farne sempre conto.

Inutile nasconderlo: è una icona, forte e forse la più forte del ventesimo secolo italiano, talvolta tanto forte da limitarne la sua potenza che va oltre il fortunato dato iconografico. E’ un’opera che intenzionalmente ti avvicina, si presenta nella mente di chi la guarda come un “affresco composto da un bagaglio figurativo diffuso”. Qualcuno oltre al pittore lo capì subito. Giovanni Cena a Pellizza da Volpedo: “Ammiro. E’ una cosa che resterà e che non ha paura del tempo perché il tempo le gioverà. Ti Abbraccio con tutta l’anima”. Il passo della lettera del 1902 è stato scelto da Aurora Scotti nell’Introduzione al Volume Il quarto stato a cura di A.Scotti e ripreso nel saggio “Dentro e oltre l’immagine di un mito” di  Maria Fratelli – conservatore della GAM di Milano – in occasione di una mostra a Palazzo Reale voluta da Vittorio Sgarbi, il mio terzo incontro con l’opera.

26 Novembre 2010, ore 16.44  (foto Lonati)

La mia quarta volta con l’opera è al Museo del Novecento, un’incontro atteso da nove anni. Tempo di attesa che contiene tutti gli altri incontri. La collocazione pensata sulla carta nel 2001 in sede di concorso rispondeva ad una conoscenza dell’opera che non aveva ancora assunto la dimensione “interna”, del sentirsi “dentro l’immagine”. Al tempo era solo una icona, una immagine “virale” condivisa tra la conoscenza della storia dell’arte e la comunicazione politica, tra la visione di un originale e le infinite riletture della comunicazione politica e sindacale. L’esperienza più forte tra queste sicuramente il “Novecento” di Bernardo Bertolucci. In questi nove anni non solo sono entrato dentro ad una immagine ma ho avuto il privilegio di veder costruire intorno all’opera differenti visioni e alla fine di costruire personalmente la visione attuale che si offre al Museo del Novecento e che risente sicuramente dei precedenti incontri avuti con l’opera e con tutte le persone intorno a quest’opera. Questa è la sostanza di progettare e vedere costruire giornalmente un museo fino al trasporto e alla collocazione delle opere sulle pareti: produrre una visione fisica delle cose e verificarne l’efficacia da concetto a immagine, da cuore dell’artista a cuore del visitatore. Perché non si vede solo con la “testa”.

Le immagini delle cose nella nostra “testa” si sovrappongono e questo produce stati del pensiero, emozioni. Al termine del trasporto dell’opera di Pellizza lo sguardo  mi cade sui guanti dei trasportatori, degli operai che sanno come si sollevano opere che pesano 4 volte il peso del loro corpo. Pare che per loro le leggi della fisica non esistano da quanto sono interiorizzate in ogni loro muscolo, da come il corpo si sposta con una intelligenza fisica  nel corso della “movimentazione”.

25 Novembre 2010, ore 18.09.57

La polvere è stata oggetto di non troppi saggi. Ultimo di mia conoscenza il saggio di Elio Grazioli. Scrive a pagina 4 “Oggetto a una dimensione, il granello di polvere è il punto geometrico in natura, è il culmine nell’oggettività del suo contrario, la materia stessa. Al limite della visibilità, la polvere è l’invisibile che diventa visibile” (ndr: il grassetto è mio); “La polvere indica che c’è ancora qualcosa al di là delle possibilità della percezione, sotto la soglia delle capacità dei sensi: gli atomi appunto, e in particolare quelli degli odori, dei suoni, della luce, del tatto, “materie” invisibili che deduciamo dai loro effetti”. La polvere ci mostra quello che non vogliamo vedere, la materia della quale sono fatte le cose, non i sogni. La polvere ci parla della realtà. In quell’attimo mi sembrava che quei guanti avessero capito meglio di chiunque altro l’intenzione di Giuseppe Pellizza, l’intenzione di mostrare l’invisibile, dargli immagine oltre l’effetto di presenza. Non una semplice traccia ma un percorso da seguire.

Le tracce della polvere mi portano al primo incontro in occasione della mostra per “Il Futurismo a Milano, anticipazioni per il nuovo Museo d’arte Moderna e Contemporanea” allestita da me insieme a Italo Rota e a Emmanuele Auxilia al PAC di Milano. La visione che ci mostra nella foto Olivo Barbieri sfocata, polverosa bene interpreta la lunga marcia che dovranno compiere i protagonisti del Quarto Stato e i visitatori; marcia che trova una strada fisica che parte dal quadro messo a terra nell’installazione di Stefano Arienti per raggiungere le sale del Padiglione d’Arte Contemporanea di Ignazio Gardella. Dopotutto il movimento è l’essenza stessa dello spazio suggerito dal quadro. E questo movimento è fatto di incontri.

Marzo 2002  (Foto Olivo Barbieri)

Giugno 2007

Il terzo incontro con l’opera è, per me, con i suoi personaggi. L’occasione è la collocazione dell’opera nella Sala delle Cariatidi di Palazzo reale voluta da Vittorio Sgarbi per porre l’attenzione sul dipinto ai milanesi che non sanno di possederla e per parlare del suo futuro spostamento nella collocazione attuale. Posto in fondo alla sala, il lento cammino di avvicinamento al quadro spostava il nostro corpo e la nostra visione da una dimensione iconografica ad un corpo a corpo con i personaggi del quadro che possiedono nomi e cognomi propri, storie da raccontare. Come una carta d’identità collettiva. Questa visione rivela raddoppi dei personaggi, distoglie lo sguardo dai protagonisti per rilanciare la visione come il risultato dell’ascolto di un “suono massa”, un suono che si ricompone di piccole parti altrimenti inudibili. Questa metafora trova nel divisionismo la tecnica pittorica più precisa e perfetta.

Nel 2006 a Milano la GAM si rinnova e diventa Museo dell’Ottocento. Per tre anni con Maria Fratelli si lavora per definire una procedura sul tema dell’allestimento di un museo all’interno di una dimora storica.   All’inizio dei lavori l’intera Villa Reale è un’opera maltratta dagli usi sbagliati che negli anni si sono susseguiti ed è stata compromessa da interventi pesanti che non hanno retto la concorrenza dell’immagine storica che Pollack gli diede all’origine. La strategia  era legata alla riattivazione della potenza dell’architettura e non l’implementazione di ulteriori elementi. E’ stato un lavoro di riscoperta della dimensione narrativa dello spazio della villa. Stesso discorso per le opere. Il quarto stato era stato collocato al termine del percorso e introduceva il suo “banale” contenuto con imbarazzante semplicità per chi doveva raccontarlo. A testimoniarlo i giri di parole delle guide che per non dire cosa rappresenta realmente quel quadro arrampicavano spiegazioni improbabili. Cento e passa anni non bastano per togliere potenza a questa opera con la quale si possono fare i conti senza imbarazzi, per quello che è stato e ancora è.

25 Novembre 2010, ore 14.05.32

Il fare architettura è cosa lenta e fatta di movimento e di incontri. Fatta anche di ripensamenti. Le immagini delle cose e degli spazi si sovrappongono nel tempo depositando esperienze. L’immagine che ho ora di questo dipinto è a più dimensioni, di natura spaziale, temporale e concettuale. Lavorare con opere di questo tipo richiede tempo; la stessa visione delle opere richiede tempo.

27 Novembre 2010, ore 17.22.08

Ora il lavoro è fatto con Italo Rota e Marina Pugliese, direttore del Museo. Il Quarto Stato è visibile da Piazza Duomo. E’ raggiungibile dalla rampa che incrocia le due marce: la nostra e la loro. Una rampa che entra nella torre per procedere lungo le sale del museo. Non è rinchiuso nella torre, non è imprigionato… ha una porta attraverso la quale può sempre uscire.

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Conserving kublai, Neo Kublai – Installazione




Un mio pensiero: Second life non è in decadenza ma sta penetrando lentamente in una nuova dimensione più contemporanea alla ricerca della rappresentazione del “mondo”, dei mondi. SL e noi come avatar abbiamo raggiunto una “maturità” tale da farci percepire una distanza tra l’esperienza e un ricordo dello spazio. Si avverte fugacemente una distanza fra un senso passato e un senso attuale che alcuni potrebbero vivere come una percezione “incompleta”. Questo scarto è misurato nel tempo delle cose che suscitano in noi un sentimento dello stesso tempo. Lo stesso sentimento che si prova di fronte alle antiche vestigia, a luoghi che si sono vissuti nel passato alle cose che abbiamo appartenuto*.
Questa attitudine verso le cose e verso il tempo si rende evidente quando ci poniamo sulla soglia del rinnovamento, ad esempio.
Il re-design di una land è il momento per rinnovare e riaggiornare i “contenuti” ma è anche occasione per creare una installazione che indaga alcuni aspetti della natura del metaverso. Parlo del rinnovamento dell’isola-porto dei creativi: Kublai.
Le installazioni sono la tipologia artistica più rappresentativa della contemporaneità.
Le installazioni rappresentano con la loro temporaneità meglio di ogni altro medium l’essere e il tempo del momento. Ma non è solo un medium: è luogo di esperienze.
Neo-Kublai è un trapasso dalla rappresentazione autoreferenziale della creatività, della pittura e della scultura a una rappresentazione referenziale in situ: la creatività si localizza e diventa un intervento nel e con il mondo. Ciò che conta è la posizione e l’ubicazione e cioè l’esserci nel tempo giusto.
Una installazione sul “tempo delle cose digitali”, sul tema della conservazione del patrimonio digitale (qui si ricorda l’appello di Mario Gerosa sulla conservazione dei beni digitali all’Unesco e il testimone raccolto dal Museo del Metaverso e da Uqbar).

*Approfondimenti sul tema del “sentimento del tempo”: Marc Augé; Rovine e macerie; 2004, Bollati Boringhieri, Torino

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Kublai Awards. Il frontespizio del concept book-premio Kublai


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Foto di Elena Trombetta


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Kublai Awards. Altra pagina del “premio”-i progetti selezionati


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Kublai Awards. Altra pagina del “premio”

Ieri, sabato 24 gennaio, a Roma c’e’ stato il Kublai-camp. E’ stato un utilissimo momento di scambio e di incontro all’interno di un progetto che senza tanti schiamazzi o teorie ha saputo da subito costruire un ponte tra la creatività in rete e il territorio reale. Nella fattispecie ha saputo fare incontrare all’interno di Second Life prima e nel mondo reale poi persone, territori e quindi abilità, immaginazione e capacità creative. Non si parla di “arte di Second life” o di Arte in genere ma di Creatività, parola con un senso più allargato verso la dimensione dell’immaginazione costruttiva, della passione nel lavoro, in una pratica costruttiva del senso.
Per l’occasione mi è stato chiesto di pensare ad un “premio“, ad un oggetto artistico per premiare i 5 selezionati di una competizione che aveva il compito di promuovere la creatività che si è esercitata nel contesto Kublai. Da subito ho capito, ho pensato, che il premio non dovesse dimenticare tutta la creatività espressa dentro questo progetto. Kublai è il primo progetto riuscito di Kublai: avere richiamato, concentrato, attraverso Second Life e la rete, progetti espressioni di varia creatività. Quindi il premio doveva premiare tutta la creatività, riconoscere i meriti dei cinque selezionati e allo stesso tempo fare ripartire un nuovo momento creativo e immaginativo.

Quello che ho visto a Roma è quello di cui parla anche Richard Sennet nel suo libro “l’uomo artigiano”: una riflessione sul buon lavoro oggi, fatto con arte, sapienza e e intelligenza. L'”artigiano”, dice Sennet, è colui che prova soddisfazione per il lavoro svolto, così che la ricompensa emotiva appare la molla per raggiungere l’abilità necessaria in ogni tipo di lavoro. A Roma c’era tanta soddisfazione e si leggeva tanta “felicità” nei progetti presentati. Abilità pratica e intelligenza tecnica nello svolgimento dei progetti. Tanta motivazione e tanto talento. Sennet, nel suo saggio, propone una nuova definizione del termine maestria: è “il desiderio di svolgere bene il lavoro per se stesso”. Questo tipo d’attività riguarda sia il medico come il meccanico, l’informatico come l’artista. Per continuare con Sennet, non avevo capito una cosa che ieri ho capito: la bellezza del “progetto” sta nell’aver riportato la “felicità” dalla sfera del consumo alla sfera della produzione. Se consumare rende felici, creare ancora di più.


Up-load: progetto Kublai è sostenuto dal Laboratorio delle politiche di sviluppo del Ministero dello sviluppo economico, che ha creduto in quanto è qui riassunto.


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Il progetto vincitore: Critical City. Un membro del progetto.
Foto di Elena Trombetta


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Le pagine “montate”


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Kublai Awards. Altra pagina del “premio”


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Kublai Awards. Altra pagina del “premio”

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Collezioni mai viste atto secondo: due personaggi, Peppino e Sante, narrati dal vivo dai due artisti, Ottonella e Nicola.
Per la seconda serata di “sperimentazioni” sul non-visivo i due artisti Ottolina Mocellin e Nicola Pellegrini hanno riproposto l’installazione-film La città negata, offrendo dal vivo la lettura pubblica dei testi e allo stesso tempo presentando dal vivo i due personaggi protagonisti di questa storia: Peppino e Sante. E’ una narrazione doppia che ci racconta la storia di due amici che, conosciutisi in età adulta, mettono a confronto la comune esperienza della cecità, dei luoghi vissuti, dello studio e del lavoro. L’opera dei due artisti era già stata mostrata nel museo MAMbo per lungo tempo nel corso del 2008 (l’opera è parte della collezione del museo) ma in questa serata ha assunto la forma specchio: i due “attori-autori-artisti” e dall’altro i due personaggi-protagonisti-ciechi”. I due interpreti e i due interpretati hanno così costruito un doppio confronto tra i loro vissuti: nella vita raccontata dal film e come identità incorporate nell’opera. Nel senso: il confronto tra Sante e Peppino come persone che “dialogano” nel film e il loro rispecchiarsi nella loro storia raccontata dagli artisti.
Questa è una chiave di lettura dell’opera presentata dagli artisti nella serata al MAMbo. Un gioco di specchi continuo che ha sottolineato questa natura dell’opera d’arte come specchio della vita, altra componente non-visiva dell’arte. Uno specchio che permette di guardare le cose con altri occhi, anzi in questo, caso senza il loro uso e quindi della vista.

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La prima serata con Paolo Nori alle “Collezioni mai viste” non poteva non essere interessante. Saggi del suo modo di costruire il pensiero e di raccontarlo attraverso la lettura li si possono incontrare sul podcast di Radio feltrinelli (per tacer delle numerose uscite in libreria).
Come promesso, parlando di John Cage, di Malevic, di Gaspare (suo nonno) e di tanti altri, Paolo Nori ha costruito un discorso senza cadute che l’ha portato a chiudere dicendo che elemento non-visivo del museo è l’aura che si costruisce intorno all’idea stessa di museo. Passaggio fondamentale nella costruzione del suo discorso è stata la lettura di un passo da Viktor Sklovskij sul tema dello straniamento il quale ci ricorda che “per risuscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste ciò che noi chiamiamo arte. Il fine dell’arte è di darci una sensazione della cosa, una sensazione che deve essere visione e non solo sensazione.” (da Una teoria della prosa, Ed. Garzanti) Lo straniamento funziona nel presentare le cose abituali in un modo differente: il linguaggio poetico e il linguaggio artistico hanno la comune peculiarità di liberare l’immagine dalla percezione consueta, rompendo gli automatismi del linguaggio e alterando la presentazione dei materiali che ne compongono il prodotto finale. Lo straniamento è una procedura artistica tra le più importanti perchè produce una nuova visione dell’oggetto. Nori, attraverso questo suo modo di costruire il percorso narrativo, ha messo in pratica lo straniamento , ricostruendo intorno a noi il valore auratico del museo. L’aura che si respira nei musei è componente fondamentale dell’esperienza estetica e può rispondere a questa domanda per niente semplice: perchè i ciechi dovrebbero andare in un museo d’arte?
Una concessione personale: questo suo discorso mi ha ricordato la mia prima lezione da studente all’università di Firenze (1985): Luis Prieto semiologo. In quella Prieto parlava dell’opera “non-auratica” e di Benjamin (citato dallo stesso Nori): se esistesse una macchina capace di riprodurre tecnicamente un’opera in tutte le sue componenti materiali, ciò che potrebbe distinguere la copia dall’originale sarebbe solo una cosa immateriale, l’aura; una cosa non visibile o riconoscibile alla vista ma solo in una dimensione concettuale. In qualche modo, quella lezione, mi ha fatto conoscere il pensiero di Benjamin all’interno dell’aura stessa di Prieto (un pilastro della Semiologia) e anche successivamente non posso non pensare a quel pomeriggio ogniqualvolta sento le parole Aura, Benjamin e Prieto.

C’è un aspetto di Rinascimento virtuale difficile da cogliere se si osservano le fotografie su flickr. E’ però nelle parole e negli scritti di Mario: la dimensione sociale dell’arte prodotta in SL. In fondo questa mostra (a fianco dei suoi testi) è il primo fondamentale passo per una storia sociale di Second Life.
A chiusura dell’articolo metto la tenda-comunicativa esposta nella mostra per fornire i primi strumenti di lettura, le chiavi per capirne meglio i contenuti. Un oggetto che fa parte di una serie completa che nessuna fotografia da sola può trasmettere: la tenda con il testo introduttivo di Mario. Tutta la mostra è pensata come una estensione concettuale della rete: la comunicazione non è avvenuta su pannelli museografico, su pannelli didattici, ma è il corpo stesso della mostra. Abbiamo usato la stessa modalità del “mondo” di comunicare attraverso l’ambiente e non attraverso le targhette… ma chi non l’ha ancora vista non può coglierne i valori di novità. E’ una mostra che non può essere giudicata dalle sue fotografie. Come Second Life deve essere vista dall’interno.
Non è una mostra che promuove singoli artisti ma un evento che sta dentro ad una grande narrazione collettiva che è nata in un luogo preciso: Second Life. E’ questa la prima chiave di lettura che differenzia questa iniziativa da qualsiasi altra.
E’ la risposta ad una sfida difficile ed offre un appoggio a tutti i residenti che si sentono parte di una nuova collettività condividendone le basi. Non è la soluzione al problema di lanciare nuovi artisti, individualmente riconosciuti, ma la presentazione di un lavoro che nato in un luogo specifico (di nicchia ricordiamocelo) tenta di farlo diventare universale (rompere la nicchia, dilatarla, allargarla al mondo reale). Trasporre nel reale le cose di second life, come già detto, è paragonabile al Jet-Lag. Tutto cambia. Lo statuto delle cose. Ciò che resta è la dimensione di “mondo”, la dimensione universale della ricerca. L’appartenere ad una idea comune declinata in modo diverso. L’arte dopotutto è sempre stato questo, la costruzione di valori condivisi.

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La mania di numerare.

Ciò che resta: l’uomo senza quantità…

Esiste un fenomeno di natura puramente umana: quello di contare, numerare, dare ordine alle cose in una sequenza lineare governata dal numero.
Questo è il post numero 100.
Siamo immersi nei numeri, Grazie a quelli viviamo. I numeri contano la nostra ricchezza e la nostra povertà. La nostra velocità. Contano il nostro tempo. Sono lì a dirci quanti siamo e traducono in cifra le emozioni che ci stanno intorno.

In un suo recente volume Andrea Branzi ragiona su questa idea del grande numero applicato alla popolazione mondiale. E’ una interpretazione visiva del termine geografico paesaggio umano.

In qualche modo mi fa pensare alle culture partecipative e alla sua qualità di costruire non tanto e non solo i contenuti ma, anche a livello visivo, un sistema di comunicazione comune a livello mondiale che diventa immagine di un modo di vivere il tempo e lo spazio.
Alcune persone, qualche milione di individui, hanno dei doppioni del proprio corpo, sono gli utenti dei mondi “virtuali”: gli avatar che popolano mondi dove ancora una volta non è la scenografia ma la compresenza di propri simili a costruire il paesaggio. L'”architettura” delle sim (il caso di second life) sembra essere spesso la sola occasione per richiamare attenzione del pubblico che si muove sulle land con assoluta libertà. Se il mondo reale ha un senso anche senza l’essere umano (una tra le tante specie animaii), ciò non vale per i mondi digitali (una prima e grande differenza).

Cito il testo di Branzi per la presenza di un capitolo in particolare che ho riportato nel tiolo e per alcuni pensieri che riguardano l’architettura e il disegno dei suoi spazi.

Sul pianeta siamo sei milardi e mezzo di persone, il doppio rispetto a cinquant’anni fa.
E’ abbastanza difficile avere eserienza di solitudine negli spazi pubblici. I luoghi che si visitano nei percorsi di viaggio sono invasi dall’esercito dei turisti, veri corpi di occupazione.
“Questo numero entusiasmante di persone che si muove liberamente nel mondo costruito determina un fenomeno paesaggistico assolutamente nuovo.
Le città sono gremite di persone, i luoghi di vacanza pure. Non è più l’architettura che fa le città, ma le persone che vi vivono e vi si spostano.
E’ un paesaggio mobile costituito da presenze espressive, che invadono ogni spazio e ogni luogo, e che sostituiscono il tradizionale scenario architettonico; introducendo nuove qualità e nuovi dispositivi di elaborazione della qualità reale dell’ambiente.”
La sfera animale, l’antroposfera è dinamica e fluida e disegna il paesaggio con la sua sola presenza. Elabora modalità di comportamento puntuali.
Ciò che fa la differenza tra una città e un’altra, tra una strada e un’altra, tra un territorio e un altro, non è più l’architettura e i suoi simboli formali, rigidi, immobili e lontani, ma le presenze umane, invadenti, viventi, varianti; uniche cellule portatrici di vere diversità, di eccezioni, di informazioni culturali profonde; terminali di memorie viventi di storie diverse.

Le presenze umane interrompono la prospettiva, creano flussi irripetibili di scene, non solo antropologiche, ma corporee.
Sei miliardi e mezzo di persone infatti costituiscono una sfera biologica, orizzontale, avvolgente, che invade lo spazio e crea, per estensione e densità, una specifica esperienza visiva.

Ma a cosa serve numerare? Perchè “l’uomo senza quantità”?
L’uomo senza quantità, per dirla con Andrea Branzi*, “è l’uomo a cui mancano informazioni sulla dimensione quantitativa di alcuni fenomeni che sono in corso; in mancanza di queste informazioni egli continua a fare riferimento a criteri di valutazioni sorpassati… Egli crede ancora che sia sufficente guardare il mondo per capirlo…”.

Quest’uomo rimane ormai isolato.
Non basta più guardare. Occorre dotarsi di abilità per riconoscere il mutamento e saperlo gestire, saperci fare e saperci stare per diventare punto di riferimento.

* Andrea Branzi, Modernità debole e difffusa, il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira 2006

On the other side of the Mirror of Life

“history begins when I wake up. and it ends when I go to sleep”
(giornalista colombiano)

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Isola Style Magazine

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Snapshot di Joannes Bedrsosian da www.unacademy.ning.com

Ogni forma d’arte ha sviluppato il proprio intreccio per non essere pura forma: il plot come intreccio di un’opera drammatica o di narrativa, stabilisce l’organizzazione logico-sintattica del discorso, in rapporto alla forma. Ciò che manca spesso, in second life, è appunto questo: il plot (che mai deve essere unico per gli spazi dell’arte). Non è il caso di ieri sera.

La notte dei vizi, perfomance allo Style Magazine sotto la direzione di Roberta Greenfield e l’animazione di Drago.
Anche ieri sera ho avuto conferma di un mio pensiero: a dispetto di tanti luoghi comuni, Second Life, è in se una costante performance metaforica della “disponibilità” e della “volontà” di mettersi in gioco; misura con costanza la nostra capacità di assumere una capacità di azione verso il mondo che ci circonda, verso i possibili stimoli che ci vengono offerti.

The avatar (Asian Lednev): this is my body
Tradizionalmente , il corpo umano, il nostro corpo, è la nostra materia prima e luogo (location, site specific) per qualsiasi creazione. Il nostro corpo è un libro aperto, uno strumento musicale, il grafico per la navigazione nello spazio e la mappa biografica… il corpo è il centro del nostro universo simbolico, un piccolo modello della conoscenza globale.

Una performance dialoga sempre con dei corpi (Richard Schechner), così come dialoga attraverso gli avatar nel web (come dice anche Guillermo Gomez-Pena). La performance lavora sui confini, sulle frontiere. Le frontiere sono tra le uniche cose che condividiamo tutti. La notte del vizio è stata una esperienza di frontiera. Ma non tanto per le “trappole” e i “dispositivi” predisposti dall’artista. Piuttosto per avere condiviso, ognuno di noi, le reciproche “frontiere” dove sperimentare l’avatar e per poter dire infine : questo è il mio corpo.

In questo blog cerco di non sbandierare troppi entusiasmi sulla tecnologia. Non perché non ne abbia di entusiasmi, anzi; semplicemente mi interessa lavorarci intorno, vedere cosa accade al contorno. Stesso discorso sulla comunicazione e l’innovazione in genere. Questo a premessa di un post letto in Ibridazioni sul Wii Fit. Rimando per il video al post originale, per segnalare semplicemente questa tecnologia che una volta di più non si limita a considerare il corpo come estensione di una mente ma, anzi, come nell’atletica leggera, mente e corpo diventano un unico organo.

Nello sport come nel digitale la parola abilità ha un significato preciso: essere abili significa avere la capacità di svolgere mansioni complesse conseguita con l’esperienza e l’applicazione. Si è abili quando il cervello e il corpo (attraverso una precisa mappatura che li tiene saldamente in relazione) sono tra loro “connessi”, quando sono educati ad esserlo. Essere diversamente abili significa la stessa cosa (come non pensare a Oscar Pistorius). Ciò che cambia è la mappatura del corpo. Chi si muove in second life sa perfettamente cosa significa essere “diversamente” abili: ne ha esperienza ogni volta che vi entra. Non è cosa semplice.Per chiudere: il digitale, con tutto il suo portato di innovazione, è intorno a noi. Tutti gli oggetti che usiamo sono estremamente sofisticati anche per il contenuto di questo “digitale” (era uno dei miei punti del decalogo digitale presentato al corso di Giuseppe).

Oggetti sofisticati comportano abilità sofisticate. Ognuno di questi oggetti richiede una nuova abilità (visiva, motoria, cognitiva in genere) che porta ogni volta a “ricomporre il nostro corpo” in relazione al mondo.

Compito: da approfondire intorno alla mappatura del corpo in relazione alle tecnologie.